[Da un paper scritto e dato alle stampe, successivamente, nel 1991].
Il destino delle famiglie e dei bambini Svedesi mostra
la verità dell'osservazione di Ludwig von Mises, per cui "nessun
compromesso è possibile tra il capitalismo e il socialismo". Qui spiegherò
come la crescita del Welfare State possa essere vista come il trasferimento
della funzione di "dipendenza" dalle famiglie ai funzionari pubblici.
Il processo, in Svezia, iniziò nel diciannovesimo secolo, attraverso la
socializzazione del tempo economico dei bambini grazie all'obbligo di frequenza
scolastica, alle leggi sul lavoro minorile e alle pensioni di vecchiaia statali. Questi
cambiamenti incentivarono scarsa o nulla natalità. Negli anni '30 del '900, i
socialdemocratici Gunnar e Alva Myrdal usarono la conseguente "crisi
demografica" per sostenere la completa socializzazione dell'allevamento
della prole. La loro "politica familiare", implementata nei 40 anni
successivi, distrusse virtualmente l'autonomia familiare Svedese, sostituendola
con una "Società Clientelare" (Client Society) nella quale i
cittadini sono assistiti continuamente dai funzionari pubblici. Mentre la
Svezia sta provando ad uscire dalla trappola welfaristica, i vecchi argomenti
favorevoli alla socializzazione dei bambini stanno prendendo piede negli Stati
Uniti.
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Nel
suo libretto “Bureaucracy”, Ludwig von Mises afferma: il socialismo
moderno “cura l’individuo dall’utero alla tomba”, mentre “i
bambini e gli adolescenti sono integrati saldamente negli apparati di controllo
dello Stato”.
Altrove, contrappone il “capitalismo” e
“socialismo”, per concludere:
“non c’è compromesso possibile fra
questi due sistemi. Contrariamente a quanto pensa erroneamente il popolo, non
c’è via di mezzo, non c’è un terzo sistema possibile come modello di ordine
sociale permanente”.
Le mie osservazioni mettono a fuoco la
validità della dichiarazione, attraverso il destino delle famiglia e dei
bambini nella "terza via" svedese.
In Svezia, troviamo un caso classico di
manipolazione burocratica atta a distruggere il rivale principale dello Stato
quale centro di lealtà: la famiglia. Osservando
questa rivalità, è importante capire che un livello base di “dipendenza” è
una costante in tutte le società. In ogni comunità umana, ci sono infanti e
bambini, anziani, individui con handicap severi ed altri che sono gravemente
ammalati. Costoro non possono prendersi cura delle proprie vite. Senza aiuti,
morirebbero. Ogni società deve caricarsi della cura spettante a queste persone.
Nelle società libere, l’istituzione
naturale della famiglia (completata e sostenuta dalle comunità locali e dalle
organizzazioni volontarie) fornisce la protezione e la cura di cui queste
persone hanno bisogno. Effettivamente, è nella famiglia (e solo
nella famiglia) che il principio del socialismo funziona: da ognuno secondo le sue
abilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni.
La crescita imponente del welfare state
può essere vista come il trasferimento costante della funzione di
“dipendenza” dalla famiglia allo Stato, dalle persone
legate da vincoli di sangue, dall’unione matrimoniale o dall’adozione alle
persone vincolate dall’impegno pubblico. Il processo è iniziato in Svezia nel
secolo scorso, con progetti burocratici di smantellamento dei legami
fra i genitori e i loro bambini.
Seguendo lo schema classico, la prima imposizione
data 1840, con il passaggio ad una legge che decreta l’obbligo di
istruzione scolastica: mentre veniva giustificata come “misura
per migliorare la conoscenza ed il benessere generale”, la
socializzazione dei bambini costituì la profonda forza motrice, basata
sull’assunto per cui i
funzionari di Stato (burocrati svedesi) conoscono le necessità e i bisogni dei
bimbi meglio dei genitori stessi, i quali non erano ritenuti in grado di
proteggere i loro figli dallo sfruttamento.
Il passo seguente, nel 1912, fu la
legislazione mirata a vietare il lavoro dei bambini nelle
fabbriche e, in una certa misura, sui poderi. Ancora, il presupposto
implicito era costituito dalla conoscenza migliore, da parte dei funzionari
dell’assistenza sociale, delle necessità dei bambini.
Il passo finale arrivò quasi
contemporaneamente: il governo svedese introdusse un programma
pensionistico e di assistenza alla vecchiaia che diventò, rapidamente,
universale. La motivazione di fondo, qui, consisteva nella volontà
di socializzare un’altra funzione di dipendenza: la dipendenza degli
anziani e dei deboli dagli adulti. Da sempre, la cura degli
anziani riguardava la famiglia. Da quel momento in poi, divenne preoccupazione
dello Stato. Prendendo tutte queste riforme assieme, l’effetto
netto, evidentemente, è la socializzazione del valore economico dei bambini. L’economia naturale della famiglia ed
il valore apportato dai bambini (collaborando all’impresa familiare e fungendo
da "assicurazione" per l’anziano) venne estirpata.
I genitori subirono una crescita
dei costi per l'educazione e il sostentamento dei figli ma il beneficio
economico che, eventualmente, avrebbero rappresentato, fu forzosamente
destinato alla “società”, cioè allo Stato.
Il prevedibile risultato di
questo cambiamento (come un economista della “Gary Becker School” direbbe)
comporterebbe una diminuzione della domanda di bambini: questo è
avvenuto in Svezia. Cominciando dalla fine del 1800, la fertilità
svedese è entrata in caduta libera per arrivare, al 1935, all’indice di
natalità più basso del mondo, sotto il livello dello “sviluppo zero”,
in cui una generazione riesce appena a sostituirsi. Per la teoria standard
della transizione demografica, questo calo costituiva una conseguenza
necessaria ed inevitabile della industrializzazione moderna: l’economia
capitalista interromperebbe i rapporti tradizionali familiari. Mentre
è vero che la struttura tradizionale della famiglia affronta un nuovo genere di
sforzo nella società industriale, recenti ricerche suggeriscono che la più
grande sfida alla famiglia, di fatto, è derivata dallo sviluppo dello Stato.
Guardando all’evidenza empirica
plurinazionale, il demografo Ryder Norman dell’università di Princeton,
addebita il declino della fertilità alla scolarizzazione di massa.
“L’educazione delle giovani generazioni è
un’ influenza sovversiva” afferma.
“Le organizzazioni politiche, come
le organizzazioni economiche, richiedono devozione e tentano di neutralizzare
il particolarismo della famiglia. C’è una lotta fra la famiglia e lo Stato per
le menti dei giovani”:
l’obbligo scolastico imposto dallo Stato è “lo strumento principale per la
formazione della cittadinanza, un appello diretto ai bambini sopra le teste dei
loro genitori”.
Confermando la validità universale
dell’esempio svedese, Ryder sostiene che, mentre l’educazione
obbligatoria accresce i "costi" di educazione e mantenimento
della prole stessa, i divieti al lavoro riducono ulteriormente il valore
economico dei piccoli. Inoltre, un sistema di previdenza sociale taglia i
legami naturali fra le generazioni, lasciando lo Stato come luogo
di lealtà assoluta.
Mentre il sistema nazionale familiare può
riorganizzarsi, per un certo tempo, intorno all’unità del nucleo
“marito-moglie” per la riproduzione, persino l’indipendenza di
base tende a dissolversi.
Il risultato finale dell’intervento dello
Stato, afferma Ryder, è una progressiva diminuzione della
fertilità, con individui destinati a restare soli, in un rapporto di
dipendenza con lo Stato.
Le contraddizioni inerenti a questo metodo
di organizzazione sociale sono scoppiate in Svezia all’inizio degli anni '30.
Con il tasso di natalità che cadde sotto il livello dello sviluppo zero, i
conservatori svedesi iniziarono una frenetica contromossa alla “minaccia
di spopolamento”, con
successiva scomparsa dei bambini svedesi. Per queste voci, il problema era
costituito dalla dislocazione spirituale o dal declino del cristianesimo, dall’aumento
del materialismo o dall’egoismo personale. Nessuno focalizzò il
problema adeguatamente, nemmeno nello spettro politico destrorso, addebitandolo
alla legislazione educativa e sociale dei novant’anni scorsi. Avendo la “crisi della popolazione”
raggiunto il livello di guardia in Svezia, l’occasione era matura per mettere
in atto demagogia e sfruttamenti.
[...]
In questa situazione, sguazzarono
due giovani scienziati sociali svedesi, Gunnar Myrdal e sua moglie, Alva
Myrdal. Prima di entrare nel merito del loro uso e abuso della questione,
permettetemi di dire qualcosa a proposito del loro background e delle influenze
che esercitarono sul loro lavoro.
Il paternalismo burocratico ha una
lunga storia in Svezia, ancorato nell’apparato dirigista costruito dai Re Vasa
agli inizi del sedicesimo secolo e promosso attraverso la distruzione
dell’autonomia regionale quale risposta alle rivolta capitanata da Nils Dacke
degli anni ’40 del 1500. Eppure i Myrdals rappresentarono qualcosa di nuovo,
molto “moderno”. Erano scienziati sociali – intellettuali accademici – intenti
a sostenere un nuovo tipo di attivismo statale. Come spiegò Alva stessa: “La
politica è [ora]… stata portata sotto il controllo della logica e della
conoscenza tecnica: è diventata, sostanzialmente, ingegneria sociale
costruttivista”.
Secondariamente, sebbene la
ripetizione del mantra svedese (il “modello svedese”) ammorbi l’America, è
importante notare quanto del nuovo Welfare State svedese poggiò sulla
sperimentazione americana. Entrambi i Myrdals spesero gli anni accademici 1929
e 1930, i mesi calanti della “Era Progressista”, viaggiando negli Stati Uniti,
attraverso sponsorizzazioni sostenute dalla Laura Spelman Rockfeller
Foundation. Durante questo periodo, Alva Myrdal cadde sotto l’influenza della
“Scuola sociologica di Chicago”. William Ogburn, in particolare, le trasmise la
visione dello Stato e della scuola quali fenomeni destinati alla crescita a
scapito della famiglia; la famiglia si sarebbe trovata di fronte ad una
“perdita di funzioni”, essendosi tirata fuori dalla storica presenza quale faro
sociale.
Alva passò, altresì, diverso tempo
al Child Development Institute of Columbia University e visitò istituti di
accoglienza prescolastica sperimentali della Rockefeller Foundation, esempi di
“genitorialità sociale” che la impressionarono fortemente.
Per parte sua, i lavori di Gunnar
Myrdal alla Columbia e all’Università di Chicago lo resero consapevole della
tremenda potenzialità politica insita nel dibattito svedese sullo
“spopolamento”.
In un importante articolo del 1932,
“Social Policy’s Dilemma” (Il Dilemma della Politica Sociale, NdT), per il
giornale d’avanguardia svedese, Spektrum,
Gunnar Myrdal sottolineò l’importanza dello strumento politico: tracciò il
compromesso in Europa, prima del 1914, da un “socialismo a sfondo liberale” a
un “liberalismo a sfondo socialista”; sotto questo regime, sostenne Gunnar, il
liberalismo del diciannovesimo secolo abbandonò il pessimismo Malthusiano e il
“dogmatismo” di libero mercato, abbracciando la necessità di riforme atte a
proteggere i lavoratori; mentre i socialisti cedettero sugli scopi della
rivoluzioni e sulla necessità di massiccia redistribuzione della proprietà
privata, esprimendo soddisfazione nella gradualità di aiuti verso la classe
lavoratrice.
La Guerra Mondiale, tuttavia,
distrusse questo compromesso. Myrdal dichiarò il liberalismo classico “morto” e
i suoi partigiani dispersi. Sostenne la necessità di re-radicalizzazione dei
movimenti operai e cercò di sviluppare un nuovo tipo di politica sociale. Sotto
il vecchio compromesso, secondo Myrdal, le politiche erano orientate dai
sintomi, attraverso gli aiuti ai poveri o agli ammalati; la nuova politica
sociale doveva prevenire tutto questo. Gli scienziati sociali, utilizzando le
moderne tecniche di ricerca, avevano il potere di usare lo Stato per prevenire
l’emergere di patologie sociale. Questa politica preventiva, quando basata su
premesse antropocentriche valoriali e sulla razionalità scientifica, avrebbero
condotto al “matrimonio naturale” della tecnica corretta con la soluzione
politica radicale. Myrdal si riferì alla crisi svedese quale opportunità di
analisi sociologica razionale al fine di produrre idee effettive e radicali per
imprimere, attraverso lo Stato, il cambiamento.
I Myrdals concretizzarono questo
programma nel loro best seller del 1934, Crisis
in the population question, un volume brillantemente argomentato che,
sostanzialmente, trasformò la Svezia. Mentre i conservatori svedesi
continuavano ad agitarsi sulle questioni sessuali, i Myrdals puntarono
direttamente alle contraddizioni create da un incompleto welfare state. Le
azioni pubbliche precedenti, quali l’oblio scolastico, il divieto lavorativo
infantile e le pensioni di Stato, ammisero i coniugi, strapparono via il valore
dei bambini alle famiglie. Ma i costi rimasero a casa. Di conseguenza, le
persone che contribuivano alla sopravvivenza nazionale attraverso la
filiazione, furono spinte nella povertà, in abitazioni scadenti, costretta a nutrizione
di bassa qualità e limitate opportunità ricreative. Una scelta volontaria tra
la povertà con figli o uno standard di vita migliore senza di essi: questo era
il dilemma. Giovani adulti furono forzati a supportare i pensionati e i
bisognosi attraverso il sistema welfaristico statale e, altresì, i bambini
stessi. Sotto questo carico pesantissimo, scelsero di ridurre il numero di
neonati; questo era l’unico fattore che potevano influenzare. Il risultato, per
la Svezia, fu la de popolazione e lo spettro dell’estinzione nazionale.
Secondo i Myrdals, c’erano solo due
alternative. La prima – lo smantellamento dell’istruzione statale, delle leggi
sul lavoro e delle pensioni di vecchiaia al fine di restaurare l’autonomia
familiare – non “valeva la pena” fosse discussa. L’altra, l’unica alternativa
possibile, era il completamento del Welfare State e la rimozione dei
disincentivi alla filiazione attraverso la socializzazione dei costi diretti
nella nascita e nel mantenimento. Il vero argomento suonava così: al fine di
risolvere i problemi causati, in larga parte, dagli interventi statali
precedenti, lo Stato deve ora intervenire con maggiore vigore completando
l’opera.
Questo comportava l’adesione a un nuovo tipo di welfarismo:
“riguarda
una politica sociale preventiva, guidata strettamente dallo scopo di aumentare
la qualità del materiale umano e, allo stesso tempo, portare a compimento politiche
di redistribuzione radicale socializzando i costi di mantenimento e allevamento
della prole”.
La burocrazia statale non aveva mai
goduto di tale mandato. Dall’etimologia stessa della parola, una politica
“preventiva” riguarda l’aiuto, lo
scrutinio e il controllo delle famiglie. Non possiamo sapere con certezza dove
il problema si verificherà, quindi, misure universali di burocratismo devono
essere implementate al fine di rendere la prevenzione realtà.
Sottolineando questa necessità, i
Myrdals conclusero:
“la
questione demografica , quindi, viene trasformata nel più forte argomento per
una pesante e radicale riforma socialista della società”.
L’alternativa, a detta loro, era
l’estinzione nazionale.
Il loro programma includeva
indennità di Stato per il vestiario dei bambini, un piano di assicurazione
universale, il diritto all’asilo nido, campi estivi statali per bambini, pasti
e colazioni scolastiche pubbliche, acquisti immobiliari incentivati, bonus per
i nuovi nati al fine di coprire i costi di nascita indiretti, prestiti
matrimoniali, espansioni della maternità retribuita, servizi ostetrici,
pianificazione economica e via dicendo. Il loro obiettivo era, in definitiva,
la socializzazione del consumo, fornendo alle famiglie un set di servizi razionalmente
determinato, gestito da funzionari pubblici e finanziato attraverso
l’imposizione fiscale sul resto della popolazione.
I critici del programma suddetto
ricevevano sempre la dura risposta: “la
piccola famiglia moderna è… patologica” dicevano i Myrdal.
“I vecchi
ideali devono morire con le generazioni che li promuovevano”.
Appelli alla libertà e all’autonomia
familiare suscitavano risposte altrettanto pungenti. I Myrdals sostennero che
il “falso desiderio individualista” dei genitori per la “libertà” di crescere i
propri bambini aveva una malsana origine: “… molti degli sforzi profusi per
difendere la ‘libertà individuale’ e la ‘responsabilità per la propria
famiglia’, sono basati su una disposizione sadica di estensione di questa
‘libertà’ al diritto incontrollato e illimitato di dominare gli altri”.
Al fine di crescere i bambini
idoneamente per la partecipazione in un mondo sociale cooperativo “dobbiamo
liberare i bambini da loro stessi” indirizzandoli agli esperti di Stato per la
cura e la crescita. L’asilo collettivo di Stato, piuttosto che la patologica
famiglia d’origine, era utile al fine di eliminare le classi sociali e
costruire una società democratica.
Fra il 1935 e il 1975, l’agenda dei
Myrdals guidò, con svariate interruzioni, l’evoluzione del Welfare State
svedese. Periodi di attivismo politico e burocratico – dal 1935 al 1938, dal
1944 al 1948 e dal 1965 al 1973 – furono punteggiati dall’ostinata resistenza
della popolazione Svedese o da limiti fiscali endogeni che ritardavano l’implementazione
compiuta. Eppure, alla fine del processo, la maggior parte dell’agenda Myrdal
fu portata a termine.
Quali furono i risultati specifici?
Con la famiglia esautorata di tutte le funzioni produttive, assicurative e
assistenziali (nonché di consumo) i risultati dovrebbero essere ovvii: il tasso
di nuzialità cadde al minimo storico tra le moderne nazioni mentre la
percentuale di adulti in solitudine crebbe. Nella centrale Stoccolma, per
esempio, due terzi della popolazione viveva in appartamenti per single, alla
metà degli anni ’80. Con i costi e benefici degli infanti pienamente
socializzati e con i “proventi” naturali economici matrimoniali
intenzionalmente eliminati per decreto, la filiazione fu separata dal
matrimonio: nel 1990, ben oltre la metà dei lattanti nascevano fuori dal
matrimonio.
I bambini, altresì, godevano quali
“diritti” di un insieme di vantaggi forniti dallo Stato: cure mediche e
odontoiatriche; trasporto pubblico a prezzi contenuti; cibi pubblici;
educazione pubblica e addirittura “consiglieri per bambini” disponibili a
intervenire nel caso i genitori avessero superato i loro limiti. I bambini non
avevano più bisogno della famiglia: ora lo Stato faceva da genitore.
Effettivamente, il sociologo
dell’Università di Rutgers, David Poponoe, suggerì che il termine “welfare
state” non rendeva più giustizia a questa forma di totale dipendenza dallo Stato.
Invece, egli usò l’etichetta “Client
Nation” per descrivere una nazione “in cui i cittadini sono, per lo più,
clienti di un largo gruppo di funzionari pubblici che curano i loro interessi”.
In Svezia, i più anziani sono
“liberi” dalla potenziale dipendenza sui bambini cresciuti; i neonati, i
bambini e i teenagers sono “liberi” dalla dipendenza genitoriale; gli adulti
sono “liberi” da qualsiasi significativo impegno sia verso i loro genitori sia
verso i bambini e le donne e gli uomini sono “liberi” da qualsivoglia reciproca
promessa una volta inclusa nel matrimonio. Questa “libertà” è stata conquistata
in cambio di una generale, comune dipendenza dallo Stato e la quasi completa
burocratizzazione di quella che, una volta, era la vita familiare. Von Mises
aveva ragione: non c’è nessuna “via di mezzo”; piuttosto, la Svezia rappresenta
una versione completa e quindi più
oppressiva dell’ordine domestico socialista, sorpassando addirittura
l’organizzazione sovietica. Ma il moderno Welfare State svedese contiene le sue
contraddizioni interne: i problemi stanno ora venendo al pettine.
Per cominciare, la “contraddizione
demografica” non è così facilmente superata. Nell’ordine democratico, coloro
che controllano il maggior numero di voti ottengono grandi guadagni. Ed anche
in Svezia gli anziani votano, i bambini no. Mentre la “politica familiare”
Svedese è stata efficace nel distruggere la famiglia quale entità indipendente,
non ha avuto successo nell’arrestare il flusso netto di programmi statali e
reddito dai giovani verso gli anziani.
Secondariamente, il client state non potrà mai fornire tutta
l’assistenza sociale necessaria, perché tutto questo sarebbe troppo costoso.
Eppure, allo stesso tempo, le famiglie, nel welfare state, sono penalizzate
quando tentano di provvedere da sé ai loro bisogni, perché, così facendo,
perdono i vantaggi dell’assistenza pubblica; sono premiate con le cure di Stato
solo quando terminano la loro opera sociale. Il funzionario di Stato danese
Bent Andersen spiegò il problema così:
“Il welfare
state razionale ha una contraddizione interna: se intende compiere le sue
funzioni, i cittadini devono astenersi dallo sfruttare pienamente i suoi
servizi – cioè, devono comportarsi irrazionalmente, motivati da controlli
sociali informali i quali, tuttavia, tendono a scomparire con la crescita del
welfare state”.
Questa contraddizione è stata la
forza motrice delle recenti ribellioni contro il moderno Client State, una
ribellione partita (nella Scandinavia) in Danimarca e Norvegia, attraverso il
successo elettorale dei partiti progressisti anti statalisti e si è ora diffusa
in Svezia. Proprio lo scorso mese, i socialdemocratici svedesi hanno subito una
pesante sconfitta politica, perdendo potere nelle elezioni nazionali a favore
di una coalizione di centrodestra, tenuta insieme dalla promessa comune di
tagliare il welfare state. Particolarmente sorprendente è stata l’emersione di
due nuovi partiti, che hanno ottenuto seggi nel Parlamento Svedese per la prima
volta.
Il primo di questi – i Cristiani Democratici – fece del triste
stato della famiglia svedese il punto centrale della sua piattaforma.
Promuovevano una diminuzione dell’interferenza burocratica nella vita familiare
e la fine agli incentivi di Stato che incoraggiano nascite al di fuori del
vincolo matrimoniale e scoraggiano la cura genitoriale dei bambini. L’altro
nuovo partito, “Nuova Democrazia”,
combina temi libertari di pesanti riduzioni di imposte e tasse, benefits di
Stato e fine del foreign aid (NdT.: aiuti esteri) con misure diverse per
frenare l’immigrazione. Insieme, formano l’ago della bilancia del potere
parlamentare. Raramente l’eliminazione del welfarismo è stata effettivamente
vincente, in qualsiasi nazione moderna; ma, per la prima volta dagli anni ’30,
gli svedesi hanno l’opportunità di recuperare un pizzico di autonomia familiare
e libertà personale.
Comunque, sembrerebbe che la “terza
via”, il modello svedese, goda di pessima fama, così come il Comunismo, la
seconda via, è collassato completamente. Sfortunatamente, il modello vive – e
successivamente potrebbe prosperare – qui negli Stati Uniti, dove la logica e
gli argomenti dei Myrdals, usati negli anni ’30, sono sul punto di conquistare
la nazione.
In un libro del 1991, intitolato
“When the Bough Breaks” (quando i rami si spezzano), edito dalla Basic Books
(la più influente casa editrice ne conservatrice), l’economista Sylvia Ann
Hewlett scrive:
“Nel mondo
moderno, non solo i bambini risultano ‘senza valore’ per le loro famiglie, ma
comportano esborsi monetari importanti. Stime indicano i costi di crescita e
mantenimento da un minimo di 171.000 a un massimo di 265.000 dollari. A fronte
di tali spese ‘un bambino fornisce amore, sorrisi e soddisfazione emotiva’ ma
nessuna fonte di reddito”.
Continua:
“il che ci
porta al dilemma Americano. Noi ci aspettiamo che i genitori spendano somme
straordinarie di denaro ed energia nell’educazione dei loro bambini, quando è
la società, collettivamente, che raccoglie i frutti di questa opera. I costi
sono privati; i benefici sono, sempre più, pubblici… Ad oggi, fidarsi dell’irrazionale
incentivo genitoriale all’allevamento della prole è un rischio avventato. È tempo
di imparare a dividere i costi e i carichi dell’educazione e della crescita dei
nostri bambini. È tempo di prendere responsabilità collettive per le prossime
generazioni”.
La Hewlett prosegue
nell’impostazione della nuova agenda politica americana, includendo astensioni
dal lavoro per maternità/paternità obbligatorie, libero e garantito accesso
all’assistenza medica pediatrica, asili e scuole materne di Stato, “investimenti dell’educazione”,
sussidi abitativi sostanziali per le famiglie con bambini e così via.
Vi suona familiare? Dovrebbe: questi
erano gli argomenti e l’agenda proposta agli svedesi da Alva e Gunnar Myrdal,
nel 1934, seppur tosata della retorica socialista radicale. Tuttavia, questo è
un libro che ha condotto il Presidente (ora pensionato) di Proctor and Gamble,
Owen Butler, a dichiarare:
“La
conclusione è inevitabile. A meno di investire più saggiamente nei nostri
bambini oggi, il futuro economico e sociale della nazione è in pericolo”.
Questi sono gli argomenti utilizzati
dalla cosiddetta “nuova politica infantile” a Washington.
Allo stesso tempo, “politica sociale
preventiva” è diventato il grido di battaglia di altri Americani “per il
cambiamento”. Gli argomenti suonano familiari: l’aiuto di Stato nell’infanzia è
più efficace dell’aiuto successivo; più aspettiamo e più costoso sarà
intervenire; “interventi precoci presentano il problema di tutti gli
investimenti per la crescita – i dividendi arrivano dopo”, etc. Tutto suona
ragionevole, in un certo senso, ma il risultato finale sarà costituito dalla
concretizzazione di un incubo burocratico e dalla virtuale distruzione della famiglia
in America.
Nel report di Settembre dello US Advisory
Board (Consiglio) sugli abusi infantili, cogliamo il “profumo” dell’ordine
americano prossimo. Questo gruppo di consiglieri, designato esclusivamente
dalle amministrazioni Bush e Reagan, ha dichiarato l’abuso infantile “emergenza
nazionale”, aggiungendo: “nessun altro problema eguaglia la sua forza di
esacerbare malattie sociali”. Il senso del report è questo: il governo federale
e gli Stati hanno speso troppo tempo nell’investigare sospetti casi di abusi;
invece, il governo federale dovrebbe concentrarsi sulla prevenzione. Il
Consiglio raccomanda lo sviluppo di un programma federale di “visite familiari”
ai nuovi genitori e ai loro figli da parte di competenti funzionari pubblici e
degli assistenti sociali, che potrebbero identificare potenziali vittime e
carnefici ed aiutarli.
Oltre al “burocrate in ogni casa”, il Consiglio raccomanda una “politica di
protezione nazionale”, in cui il governo federale garantisca il diritto di tutti
i bambini di vivere in un ambiente sicuro, con appropriati mezzi di enforcement
(NdT.: applicazione delle norme).
La Hewlett ha ragione sui sintomi:
abbiamo socializzato il valore economico dei bambini, lasciando i costi ai
genitori. Gli Stati Uniti nel 1991, così come la Svezia nel 1934, rappresentano
una versione incompleta del modello welfarista. Ella ha doppiamente ragione:
tutto questo esige un prezzo. Il numero di nuovi nati americani all’interno del
matrimonio è stato immobile negli anni ’80, 30% al di sotto della crescita
zero. Gli americani, semplicemente, non stanno investendo in più di uno o
due bambini, perché non vale la pena (il
tasso di natalità complessivo, è vero, risulta in aumento ma questo è dovuto
interamente al grande aumento dei nati fuori dal matrimonio: dai 665.000 del
1980 agli oltre 1.000.000 del 1990; queste nascite sembra siano sussidiate
egregiamente dal welfare state).
C’è un’alternativa al modello
svedese: la Dr.ssa Hewlett non la menziona; è quella che i coniugi Myrdal
liquidarono perché “oltre ogni ragionevolezza” sessant’anni fa. Questa opzione
si chiama “società libera”: invece di completare il welfare state estendendo i
tentacoli della burocrazia sui nostri bambini, smantelliamo ciò che esiste. L’agenda
è semplice, radicale e pragmaticamente anti burocratica:
1. Porre fine alla educazione obbligatoria di Stato,
lasciando liberi i genitori (o i tutori legali ) di crescere i bambini;
2. Abolire le leggi sul lavoro minorile: i genitori e i
tutori sono i migliori giudici degli interessi e del benessere del bambino, più
che qualsiasi combinazione di burocrati di Stato;
3. Smantellare la Sicurezza Sociale, lasciando che la
protezione e la sicurezza della vecchiaia vengano fornite, di nuovo, dagli
individui e dalle loro famiglie.
Queste azioni restaurerebbero i
benefici economici dei bambini, ponendo termine alla contraddizione che giace
al centro dell’incompleto welfare state. La maggior parte dei commentatori
risponderebbe: “è impossibile! Tali azioni sono inconcepibili nella società
moderna industriale”. Data la realtà e la complessità del mondo moderno,
direbbero, il caos regnerebbe sovrano se attuassimo tale programma reazionario.
Risponderei consigliando di guardare
ai gruppi sparsi in America, i quali, per casualità storica o miracolo
politico, ancora abitano una delle “zone di libertà” che sopravvive al regime.
Un esempio interessante e
inaspettato è fornito dagli Amish, che hanno respinto i tentativi dello Stato
di insinuarsi nelle loro speciali pratiche educative (precisamente,
l’istruzione esclusiva a cura di insegnanti Amish e solo fino alla terza
media), che fanno uso di lavoro infantile ed evitano la Sicurezza Sociale (così
come il welfare di Stato). Non solo gli Amish sono riusciti a sopravvivere
nell’ambiente industriale; essi prosperano. Le loro famiglie contano 3 volte il
numero dei membri della famiglia americana media. Di fronte alla competizione
leale, le loro fattorie profittano “nei tempi buoni e in quelli cattivi”.
Il loro tasso di risparmio è straordinariamente
alto. Le pratiche contadine, dal punto di vista della tutela dell’ambiente,
sono esemplari, segnate da una rigorosa amministrazione del suolo, evitando
fertilizzanti chimici e artificiali. Durante un periodo di grande calo dei
contadini americani, le fattorie Amish si sono allargate, dall’originale base
nel sud est della Pennsylvania all’Ohio, Indiana, Iowa, Tennessee, Wisconsin e
Minnesota.
È vero: pochi americani
sceglierebbero di vivere come gli Amish, se potessero essere liberi di farlo.
Di nuovo, nessuno può sapere l’aspetto che l’America assumerà, se i cittadini
saranno liberati dalla dittatura burocratica sulle loro famiglie. Dittatura che
è iniziata, qui, oltre un secolo fa, con la scuola pubblica obbligatoria.
Non ho dubbi, personalmente: in una
società libera, le famiglie sarebbero più forti, le nascite copiose e gli
uomini e le donne più felici. Per me, è abbastanza.
Articolo di Allan Carlson su Mises.org
Traduzione di Luigi Pirri
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