domenica 25 agosto 2013

L'ingiustizia della "Giustizia Sociale"

Un breve scritto di Ben O'Neill sul concetto di "giustizia sociale" (come abitualmente inteso).




A volte capita di assistere a fatti che rappresentano pienamente l'ideologia di fondo della cosiddetta “Giustizia Sociale”. Nessuna meravigliosa critica scritta a riguardo supera l’elegante semplicità del recente lavoro di alcuni dei suoi sostenitori: mi riferisco al recente video pubblicato in occasione della “Giornata Mondiale della Giustizia Sociale”, nella quale gli studenti e gli insegnanti sono invitati a completare questa frase:
“Ciascno ha diritto a _____”.


Il video è un vivace montaggio delle possibili integrazioni dell'enunciato, accompagnate da una piacevole melodia; mostra gli studenti e gli insegnanti intenti a completare l’esercizio, dando risposte che consistono in una lista dei più disparati desideri: dalla conoscenza alla giustizia, dall’amore alla compassione e dalla verità all’assistenza medica, all’educazione, all’alimentazione, all’acqua potabile, alle scarpe, al rock e roll e perfino ai lecca lecca e al gelato.

 
World Day of Social Justice
GlobeMed at Rhodes College's photo project for the World Day of Social Justice
(Puoi guardare il video qui).

Alcuni di questi desideri potrebbero essere considerati, effettivamente, “diritti”, interpretando alla buona, ma, per la maggior parte di essi, si tratta di capricci veri e propri (gelati e rock and roll ad esempio). Inoltre, la qualità dei beni desiderati induce a pensare: qualsiasi cosa desiderabile è un diritto. Più cibo? È un diritto. Migliore assistenza sanitaria? Diritto. Conoscenza e compassione? Idem. Tutti diritti. Amore, cure prenatali, lecca lecca? Diritti, diritti, diritti.

Sebbene breve e semplice, il video mostra perfettamente l’attitudine che pervade le discussioni politiche modern, in special modo quelle tra i sostenitori della “giustizia sociale”. Per tali persone, la nozione di “diritto” equivale a quella di prestazione dovuta, indicante una pretesa di qualsiasi bene o servizio desiderabile, non importa quanto futile, astratto o concreto, nuovo o vecchio. Si tratta di una distorsione linguistica atta a raggiungere questo o quel desiderio.

Infatti, poiché il programma di giustizia sociale inevitabilmente implica la fornitura statale di determinati beni o servizi, attraverso gli sforzi altrui, il termine, attualmente, si riferisce all’intenzione di usare la forza per soddisfare i nostri desideri. Non guadagnare merci desiderate attraverso il pensiero razionale e l’azione (la produzione e lo scambio volontario) ma ottenere ciò che è desiderato attraverso la coazione sulle altre persone!

Questa è una visione completamente erronea della nozione di “diritto”. Un diritto attuale è una prerogativa morale derivata dall’applicazione della filosofia morale alla natura umana: si tratta di un termine utilizzato dalla filosofia per designare un principio morale attuale che dovrebbe derivare oggettivamente dall’esame della moralità naturale dell’uomo. I diritti non sono costruzioni soggettive: sono principi oggettivi validati dalla filosofia morale (in particolare, dalla filosofia politica, quel ramo della filosofia morale che si occupa della dell’uso della forza).

Una persona ha diritto a una cosa particolare – in contrapposizione al desiderio per quella stessa cosa – qualora egli abbia una prerogativa morale che giustifichi la sua pretesa. Questa deve necessariamente essere accompagnata da un’ingiunzione corrispondente gravante su altri, atta a prevenire gli ostacoli che si pongano all'acquisizione della cosa stessa da parte del legittimo titolare. Il diritto non esiste nel vuoto, ermeticamente chiuso agli altri. Quindi, affermare l’esistenza di diritti di proprietà (una cospicua omissione del video) in capo ad una persona non consiste in una semplice speranza di soddisfazione dei propri desideri: è moralmente giusto per una persona controllare la sua proprietà e moralmente sbagliato che gli altri intervengano nella sua sfera proprietaria. I diritti si riferiscono a ciò che è attualmente giusto – cioè moralmente giusto.

I diritti autentici esistono quali verità eterne della filosofia morale: principi che mantengono la loro validità senza riguardo al tempo , al luogo o alle invenzioni presenti. Quindi non esiste un “diritto alle scarpe” o un “diritto al gelato” o al rock and roll o a cose di recente scoperta o invenzione. Sostenere il contrario equivale a ridurre i diritti ad una lista di shopping di ultimo grido.

Come i critici della giustizia sociale sono costretti a ribadire ad nauseam, affermare l’esistenza di un diritto verso qualche bene o servizio (ad esempio: acqua potabile, assistenza medica, educazione, cure prenatali, gelato, etc.) implica che qualcun altro debba fornire quel bene: conferisce la prerogativa morale di disporre delle capacità altrui per la soddisfazione dei propri desideri. Quando abbinata all’offerta pubblica di questi mezzi (come è sempre il caso nelle intenzioni dei sostenitori della giustizia sociale), conferisce la facoltà di usare la forza per raggiungere i nostri scopi – costringere altri a fornirti gelati, acqua potabile, capacità mediche e via dicendo. È il principio del ladro, del rapinatore, del criminale che concepisce i suoi voleri e desideri come ragioni per imporsi coercitivamente sugli altri.

La propaganda della “giustizia sociale” opera avvolgendo i desideri nel linguaggio giuridico, assicurandosi di evitare la scomoda menzione circa le modalità di offerta e fornitura di quei beni. Vediamo nel video un presunto diritto alla “educazione gratuita”; con un po’ di onestà, suonerebbe così: “prendere con la forza il denaro altrui per pagare la costosa educazione di qualcun altro”. Ma cosa è l’educazione “gratuita”? “Gratuita” per chi?

In una società razionale, con una corretta comprensione dei diritti, l’asserzione di una prerogativa morale all'educazione gratuita, all'assistenza medica o al gelato sarebbe guardata come un’imbarzzante reductio ad absurdum. Le presentazioni ove i giovani ribadiscano l’esistenza di diritti del genere, senza riguardo alcuno alla provenienza dei beni o servizi, sarebbero considerate un divertente esempio di bizzarria e spensieratezza giovanile. Ma nell'assurda cultura odierna, tutto ciò è messo in scena dai sostenitori della “giustizia sociale” quale espressione dei loro ideali.

Alcuni potrebbero obiettare: 

“Dai, si tratta di diritti reclamati ironicamente, non vedi? Nessuno oserebbe affermare seriamente l'esistenza del diritto al gelato o al rock and roll. Si stanno solo divertendo un po’. Sveglia!”.

Ecco il problema: affermare l’esistenza del diritto al rock e roll o al gelato non è meno sciocco di quanto sia asserire il diritto all'assistenza medica o all'educazione; si tratta di casi di domanda per beni e servizi forniti a spese altrui  - l’elevazione a diritto di un desiderio. Reductio ad absurdum perché entrambi seguono lo stesso approccio filosofico ai diritti – differenziandosi nel grado e non nel tipo.

Lasciate che sia chiaro: non intendo condannare I giovani nel video. La maggior parte delle cose identificate quali “diritti” sono, effettivamente, beni o servizi desiderabili ed è rinfrancante sapere che questi giovani vogliano vivere in un mondo di verità, amore, giustizia, benessere, cibo e acqua pulita nonché educazione. Effettivamente, nonostante gli sbagli grossolani, quest’attitudine fa ben sperare per il futuro.

L’errore sta nell'equivoco tra cose desiderate e diritti: le prime non sono comprese tra i secondi. Sfortunatamente, si tratta di un errore pienamente comprensibile, data la natura dell’educazione e del dibattito pubblico odierno. La maggior parte dei giovani, arrivati all'università, non ha mai studiato seriamente il fondamento filosofico della categoria “diritti”, quindi la loro conoscenza del soggetto deriva dalle domande dei gruppi di pressione in cerca di rendite nel sistema politico (e dalla demagogia dei politici stessi). Il dritto al gelato è una cosa evidentemente ridicola, ma non meno filosoficamente difendibile delle centinaia di pretese giuridiche che riempiono i nostri telegiornali o i parlamenti mondiali.

Ciò che intendo sottolineare, tuttavia, non è l’errore dei giovani nel video, molti dei quali non hanno ragione di conoscere in maniera adeguata la natura dei diritti, ma l’evidente reductio ad absurdum (che il video dimostra) adottata dagli stimati gruppi pro giustizia sociale e utilizzata orgogliosamente quale fondamento della filosofia in questione. È chiaro che, in queste circostanze, ci troviamo di fronte a movimenti intellettualmente falliti.


Articolo di Ben O'Neil su Mises.org

domenica 4 agosto 2013

"L'obiezione del Male" - Padre Giuseppe Barzaghi

Di seguito la trascrizione del primo incontro della conferenza "Lo sguardo della sofferenza". Relatore: Padre Giuseppe Barzaghi, O.P.

---------------------------------------------


Devo dire che mi son sentito veramente a disagio su questo tema: io non sono fatto per il negativo, sono fatto per il positivo. Dovendo trattare di una cosa negativa come è il male, dovevo adattarlo a me stesso. Questo vuol dire che, solitamente, anche le cose debbono adattarsi a noi: l’adattamento è sempre reciproco. Allora l’ho trasfigurato con questo titolo: “Lo sguardo della sofferenza”. Il problema del male è un problema più soggettivo che oggettivo: per questo che noi diciamo: “tu non immagini neanche quello che ha sofferto quella persona lì”. Il male è obiettivo ma la sua trasfigurazione è nell'anima di chi lo patisce. 

Allora dico: per adattare a me la trattazione del male dico, per non fare pasticci insomma, bisogna parlare dello sguardo della sofferenza, in cui c’è il richiamo dell’oggettività dell’essere toccati dal negativo ma questa sofferenza cade sempre dentro uno sguardo. E quando vi cade, a seconda dello sguardo, cambia faccia: questo vuol dire “trasfigurare”. Io sono fatto così, ho fatto degli studi che portano ad esigere questa trasfigurazione, che vuol dire vedere il positivo nel negativo.

I più grandi geni dell’umanità, i maestri dello Spirito, hanno l’abilità di vedere il positivo nel negativo: hanno una tale abilità di essere capaci, addirittura, di vedere il negativo nel positivo. Eh… questa è grossa! Vengo da Bologna ma la matrice è briantea (dall’accento si capisce). Saper vedere anche il negativo nel positivo non vuol dire disprezzare o banalizzare il positivo: significa rieditare il suo speculare, il positivo nel negativo; vuol dire il “negativo non è mai assoluto. È incrostato in un positivo”. 

Bisogna sapersi adattare a questa circolarità presente tra bene e male e questa facoltà sta tutta nello sguardo; proprio per questo non dobbiamo pensare che le riflessioni da sviluppare in questi incontri siano semplicemente delle riflessioni di carattere tecnico – teologico o filosofico; c’è anche questo ma non c’è mai filosofia slegata dall’intuizione spirituale. Il grande filosofo, anche quello sistematico, è ispirato: trascinato via. Altrimenti trattasi di copione puro. 

Dicevo: le tematiche da affrontare hanno un carattere dogmatico, quindi di dottrina e di ragione ma l’ambiente di questo ragionamento, di questa dottrina è sempre un ambiente di fuga: bisogna imparare a lasciarsi incantare. Quando siamo incantati, non possiamo essere tolti dal nostro incantesimo. “Fuga” vuol dire saper mirare con lo sguardo dove tutto viene contestualizzato pacificamente. “C’è il male!”; adesso ti faccio vedere che c’è il bene, il male è incastonato nel bene inamovibile. Questo trascinamento altrove, nel Cristianesimo, si chiama “Fede”. Adesso vi faccio vedere una cosa bellissima: noi non siamo capaci di vedere le cose perché distratti in quanto insofferenti, cioè non sofferenti (chi non vuole soffrire: “Sofferente”: sub = sotto; fero = porto). Chi sopporta è debole o forte? È lì e sopporta. Quando siamo insofferenti vuol dire che non siamo ancora messi in quella condizione: non sappiamo cosa vuol dire stare sotto e portare. Anche quando il Vangelo ci introduce nelle cose più belle i nostri occhi diventano quelli del Vespertiglione (pipistrello), richiamando Aristotele.

Rispetto ai primi principi il pipistrello chiude gli occhi; se noi leggiamo in questo modo il Vangelo non ci accorgiamo di nulla. La visione che si deve avere dello sguardo della sofferenza è quella del trascinamento, mirando un punto di fuga in cui tutto viene collocato in una condizione di tranquillità, di pace. Voi conoscete il ricco epulone? Nell’episodio evangelico, nella redazione di Luca, si mettono a confronto il povero Lazzaro e il ricco; tutti noi siamo abituati da bambini a ricordare questo episodio così: “Tu hai avuto i tuoi beni in questa vita e ti prendi la punizione nell’altra vita, tu hai avuto i tuoi mali in questa vita e ti prendi la gioia nell’altra”. 

Ma qui c’è scritta un’altra cosa: avete visto i film di don Camillo? Quando Peppone si arrabbia perché il figlio maggiore non studia e scappa dal collegio, don Camillo va a prenderlo, lo porta a casa e dice: “è inutile che lo porti a studiare, è cresciuto nei campi, lascialo stare”. C’è una scena, nella classe, dove è tornato il figlio di Peppone, emblematica: tutti gli altri bambini stanno scrivendo e questo bambino guarda l’uccellino fuori dalla finestra. Adesso io vi dico: mettetevi nella testa che il vostro sguardo deve essere come quello di quel bambino lì. Guarda cosa c’è scritto nel Vangelo (Lc 16, 22): Factum est autem ut moreretur mendicus et portaretur ab angelis in sinum Abrahae mortuus est autem et dives et sepultus est in inferno”. 

L’ho letta in latino perché se l’avessi letta in italiano, con la velocità con cui si legge solitamente, chi avrebbe fatto attenzione? C’è scritto così: “Avvenne che il povero morì e fu portato dagli angeli di Dio nel seno di Abramo; morì anche il ricco e fu sepolto”. Se il Vangelo usa quelle parole lì, non una di più, non una di meno c’è un motivo: se trattasi di ispirazione, il Signore ha voluto così. Che differenza c’è quindi? 

La differenza che c’è tra uno che ha sempre pensato: “si mangia, si beve, si dorme e quando si muore ti mettono sotto terra”. L’altro, che viveva sogni di speranza, fu portato dagli angeli, non da un angelo, nel seno di Abramo. Allora, capite che c’è una bella differenza tra vedere questa parabola incentrata sul fatto che uno è cattivo, l’altro è buono, uno è castigato, l’altro no, etc. e questa visione. Ma perché dovete leggerlo così? 

Questo è un versetto, il 22, è decisivo: il povero Lazzaro è morto. Oh, si sono mossi gli angeli di Dio, le creature angeliche! Queste, come numero, sono superiore a tutte le creature sensibili. Si mossero gli angeli di Dio, per uno solo! Quando si dice “Il Signore degli eserciti” puoi mica dire “il Signore delle guardie svizzere”, no? Il Signore degli eserciti delle schiere celesti: arrivano loro e il povero viene trascinato via. Se si considerano le cose da questo punto di vista possiamo domandarci: “Esistono gli angeli? Si muovono tutti?” Che esistano gli angeli posso dimostrarlo, che si muovano proprio tutti no. Ma sai qual è la differenza? Quando io vedo un malato, non sono contento ma so che vi è qualcuno più forte di me che lo aiuta, minimo un angelo custode. Mettetevi al suo posto: cosa sperereste? Cosa occorre? Saperlo sentire come è stato sentito da chi l’ha scritto e da chi l’ha ispirato. E quando senti così sei portato in fuga anche tu. Chi ti prende? Se sei trascinato, la forza è di colui che ti trascina. E se ti trascina Dio chi ti prende? Nessuno! Non si chiama “fuga” lo scappare da una responsabilità: si dice “andare in fuga” la capacità di traguardare, trans – guardare. I corridori in fuga di cosa hanno paura? Non si voltano neanche indietro! Il finisseur cosa fa? A cinquantacinque all’ora guarda avanti. Trans – guardare vuol dire guardare oltre, al di là dello sguardo. Con la fede si vede qualcosa? Vado al di là dello sguardo. 

Questo trascinamento è il modo con il quale vanno contestualizzate queste esperienze di male, di sofferenza: c’è Qualcuno che mi sostiene, io sto sotto e porto. È così importante la faccenda che addirittura Gesù ha bisogno del Suo conforto. Siamo sempre nel Vangelo di Luca: è un Vangelo di sguardi. Bisogna sempre leggere i frammenti: tanti sono quelli che possono ricordare a memoria il riassunto, i capitoli, etc. il problema sono i frammenti, perché i frammenti li becchi così: sei lì a ripetere e non te ne accorgi. Qui c’è un frammento di Gesù nell’orto degli ulivi: in questa situazione c’è la preghiera di Gesù rivolta al Padre nella quale dice: “se è possibile passi da me questo calice, tuttavia sia fatta non la mia ma la Tua Volontà. Gli apparve, allora, un angelo dal cielo, che lo confortava”. Confortans eum: si vedono gli angeli? Perché arriva? Perché nelle altre redazioni non si vedono? Perché è bello pensare così; Dio ha voluto così. “Et factus in agonìa prolixis orabat”. “Factus in agonia”: ecco, tra poco non respira più. Guardate che è nell’orto degli ulivi, non è ancora in agonia; entrato nel suo “agone” (agone non è accrescitivo di ago: agone vuol dire "combattimento". Quindi: entrato nel suo combattimento). Quelli che entrano nel combattimento come si chiameranno? Agonisti: l’atleta è il lottatore; adesso so che devo sopportare, devo essere forte, perché entro nella lotta. Chi era l’atleta del Signore? San Paolo (“Io, l’atleta del Signore!”). Certo che gli manca il fiato, è entrato nell’agone! Tutti i più grandi scalatori sono senza fiato. E anche quando si fermano ansimano. C’è questa idea per cui entrare nell’agone significa effettivamente entrare in qualcosa che ti fa mancare il fiato: il sofferente, il sopportatore è un atleta. 

Questo modo di inquadrare l’esperienza della sofferenza dovrà avere anche dei momenti di riflessione, di giustificazione razionale: se si abbandona questo sguardo qua, però, tutto diventa insipido. Nelle questioni in cui si gioca, la saggezza vale di più in colpo di genio che un sillogismo in barbara. Il colpo di genio ce lo abbiamo quando siamo ispirati. Di solito si dice: “il male è una grande obiezione”. Parli della bellezza di tutte le cose e c’è sempre lo spiritello demoniaco dietro:“Guarda la bellezza dei fiori!”; “marciranno tutti”. Endre Ady, grande poeta decadentista ungherese: “amo le rose malate, amo la vita che se ne va, le donne sfiorite e vogliose”. Cosa ci vuole per vedere la vita così? Ci vuole l’ispirazione del poeta. Anche i momenti più banali, dentro lo sguardo della Fede, diventano poesia eccelsa. Si intendono con lo sguardo che è l’ultimo: ti resta solo chiedere di potere contemplare cosa si stanno dicendo con lo sguardo ultimo. Perché? Perché sono in fuga. Tu non c’entri; ma loro c’entrano. Bisogna che recuperiamo sguardo della Fede che può attutire qualsiasi strepito.

Un altro esempio. Quando facevo il liceo: occupazione un giorno sì un giorno no. Oh, ci si accorgeva che nelle classi c’erano dei geni! Non sto facendo la litanìa della bellezza della contestazione, era una cavolata! Oh, però, guarda qua: c’erano dei geni! Non era mica secchione, era uno scemo come te. Va lì e fa una lezione su Beethoven: studiava il violoncello. E quell’altro? Oh, sa tutto sull’uomo di Neanderthal e fa lui la lezione. Questo era il positivino nel negativone. C’erano le assemblee: il preside doveva prenotare un teatro perché l’aula magna non c’era, etc. Allora cominciavano i rivoluzionari col megafono: “questo è un momento di lotta perché…”, ad un certo punto uno di questi sviene. Il preside, contestato da tutti, viene giù dall’androne; tutti lì che urlano. Si toglie la giacca, gli tira su la testa: che figura di merda che abbiam fatto!  Quello che era contestato è venuto giù, si è tolto la giacca e lo ha salvato. Capisci cosa vuol dire? È sempre una questione di fuga, di trascinamento. 

Questo era solo un esempio. Ma nelle cose che riguardano lo spirito bisogna avere questo occhio attento al punto che fonda tutto: questo non è mai frutto di ragionamento; perché, in questo caso, sarebbe una conseguenza. Una conseguenza ha bisogno di un antecedente che lo fonda: è l’antecedente che non consegue a nessuno. E chi lo pone? L’intensità dello sguardo: tutto cade dentro uno sguardo intenso; è fatto perché tutto gli cada dentro. Se uno sguardo non fosse fatto per questo sarebbe uno sguardo vuoto, cioè assente; quando non è assente, è presente (pre esse = tutto davanti a sé, tutto nello sguardo). Il problema del male, quindi, nella sua più profonda e intensa trattazione è solo e soltanto una questione di sguardo. Prima vi ho detto che i grandi spiriti sono questi che sanno vedere il positivo nel negativo e viceversa. Il giusto: quando una cosa è “giusta” non è piatta, è adeguata. Solo che per riuscire a vederle adeguate, bisogna riuscire a vederle. Guarda: tutto è adeguato. “Eh ma io non riesco a vederlo”. Questo è il colpo di genio! Va bene così. Va bene così. Questo me lo ha insegnato mio papà. Avreste preferito Fichte no?  

Il compito del saggio che tende all’infinito perché l’io trascendentale pone in sé un io empirico che si contrappone a  un non io empirico e l’io empirico tende a paragonarsi all’io trascendentale e non potendo va all’infinito, quindi non avrà mai la verità ma la ricerca della verità: Lessing. Invece mio papà mi ha insegnato questa cosa qua: se tu vai nell’antologia della memoria, trovi le citazioni più belle. Vi ricordate l’episodio di Vermicino? Alfredino Rampi, caduto nel pozzo artesiano? Padre Barzaghi, in quell’anno, era matricola di filosofia e le matricole ne sanno parecchio di Platone, di Aristotele e anche di Kant. Lì, naturalmente, tutte le obiezioni le tiravo fuori. Mio papà mi guarda e mi fa: “non c’è nulla da capire”. A cosa serve l’obiezione? 

Supposto che sia solida, varrebbe il 50%. E sul 50% cosa fai? Scegli ciò che maggiormente affascina. Chissà quanti episodi avete dentro alla memoria. Non chiamiamola “enciclopedia”… quella è roba illuminista. Non erano capaci di sistematizzare e allora hanno ordinato tutto in sequenza. “Eh, l’illuminismo, gran ragionamento…”. Sì, ordine alfabetico! Prima c’erano le cattedrali speculative, tu capivi perché un determinato tema veniva prima di un altro. E adesso? La P viene prima della Q. La Y viene prima della V? e la X? Insomma, guardiamo bene: le cose dense stanno nello sguardo. L’obiezione del male, che è fastidiosa, come si risponde? Obiectum, te lo metto davanti alla faccia. Ti giri? Te lo rimetto. Con la ragione tutti siamo capaci ad obiettare. Per fare obiezione basta “Mah”, “Buh”, “eh”… il problema è trovare la soluzione.

La soluzione non è: “eh!”, “Uh!”, etc. Queste cose qui sono al giardino zoologico. Se l’obiezione è fastidiosa, ce l’hai sempre davanti alla faccia, cosa bisogna fare? Diventare compagnia lieta all’obiezione fastidiosa. Ricordare: diventare compagnia lieta all’obiezione fastidiosa. Vuol dire che la compagnia è sempre lì ma non si sovrappone. Tutti vedono l’obiezione ma non vedono mica la compagnia lieta. La Fede ci trasfigura nello sguardo così da diventare compagnia lieta all’obiezione fastidiosa. La compagnia lieta, con la sua letizia, ti dice: “guarda là”, ti porta nella fuga dello sguardo dell’anima. Di fronte ad un’obiezione fastidiosa vale più questo discorso che la controbiezione all’obiezione ancora più arcigna: troveremmo due persone che disputano sul malato. Bisogna uscire da questa ottica qua.

La riflessione sul tema del male, la teodicea di Leibniz, sono interessantissime quando si fanno nell’astrazione del cesto delle nuvole di Aristofane. Questi aveva messo Socrate, in una sua commedia, dentro una cesta, mentre guardava le nuvole. Perché? Perché Anassimene aveva detto che l’intelligenza infinita era aria; l’aria infinita è il cielo. I discorsi accademici sono dentro questa cesta ed è giusto farli, perché se non fai sapere cosa metti dentro la cesta non ti pagano; il problema è uscire dalla commedia della cesta e delle nuvole, vuol dire andare a toccare efficacemente lo spirito filosofico che c’è dentro ciascuno. Ma per farlo occorre l’ispirazione.

Perché uno si iscrive a matematica? Il piacere matematico è una spiegazione non matematica. La stessa cosa vale nella filosofia. Quindi, di fronte all’obiezione del male dobbiamo trasformarci in compagnia lieta, che può essere taciturna ma il male non può niente. Attenti: io non vivo in ospedale come i dottori o le infermiere. Però, sai, se uno vive in un convento, dove prima eravamo 50, 45 poi 40, 35… capisci che lì tu puoi trovarti di fronte uno che ha novant’anni e uno di venticinque: muore quello di venticinque. Si è sempre immersi in questa cosa: è come se ci si abituasse, si crea l’habitus (che è una qualità buona) per cui si cominciano a intendere queste cose dal punto di vista claustrale, dell’universo chiuso, perché non si può andare al di là dell’universo. Il chiostro è l’universo: c’è dentro tutto, se trovi qualcosa al di là niente altro sarà che universo. Solo che se tu cominci a stringere, stringere, e stringere diventa un’aiuola: per Kant è quell'aiuola che ci fa tanto feroci. C’è tutto, anche questo bellissimo sentimento.

Certe esperienze sono molto belle. Questo frate che stava morendo intona il “Salve Regina” con le labbra. L’assoluto presente è tutto qui: tutto è visto nello sguardo in una concezione speculare, di specchio; tu vai da un’altra parte, lo specchio ti riporta indietro con tutto. “Ci sarà l’aldilà?”, guarda, è l’al di lì: è presente e non lo vedi. Si specula tutto, si riflette tutto. Dentro lo specchio guardo me stesso. In questa riflessione totale propria dello sguardo speculativo della fede si matura il senso del positivo, del negativo e del negativo nel positivo.

Adesso lo devo dire: il più grande genio (guarda, saremmo in due tre ad essere d’accordo, non mi interessa) musicale: Johann Sebastian Bach. Lui riusciva a vedere queste cose (positivo nel negativo, etc.). Anche se ha delle cose estremamente liete e gradevoli, tac! ti fa una rimembranza di morte; se c’è una cosa luttuosa e sgradevole ti mette dentro il sapore della vita, ti fa vedere il positivo nel negativo e il negativo nel positivo. 

Dicevo prima, col dottor Spinetti, ho sentito l’ultima incisione di Pollini, il primo libro del clavicembalo ben temperato. Il primo brano, il primo preludio è in do maggiore, il giro più semplice, tonalità più lieta, naturale, lo conoscete? Uno quando ha musicato l’Ave Maria ha preso il clavicembalo ben temperato di Bach. Se togli Bach togli il fondamento. Do maggiore, semplice, la tonalità più lieta tutte le note bianche, tonalità più lieta. Il grande Glenn Gould diceva: “se volete farmi un’offesa, dite che somiglio caratterialmente alla tonalità di Do maggiore”. Ma in uno sguardo teologico, anzi, teologale come quello di Bach, diventa una tonalità magnifica, almeno quel brano lì. Il cantabile è solo la nota bassa. Alla fine, quando sembra che la tonaltià presagisca l’ascensione. La tonalità minore, invece, accompagna lo stato di mestizia. Avete mai sentito la fuga in sol minore di Bach? Sol minore è una roba da funerale. Sì, ascoltala. È il girotondo dei bambini! Ha ribaltato la faccenda: ti ha fatto vedere il positivo nel negativo, prima il negativo nel positivo. Questo qui è uno sguardo in fuga.

 Padre Giuseppe Barzaghi



lunedì 29 luglio 2013

La via della sofferenza - Padre Giuseppe Barzaghi


Di seguito la trascrizione del quarto incontro della conferenza concernente “Lo sguardo della sofferenza” svoltasi a Brescia, presso l'Accademia del Redentore, nel 2011. Relatore: Padre Giuseppe Barzaghi, O.P. E' un tema un po’ diverso dagli altri post (non completamente secondo me). Cercherò di trascrivere anche le altre.
Luigi



Oggi trattiamo il tema della “via della sofferenza”.
La sofferenza è metodo; “metodo” vuol dire via. Non vuol dire stare a guardare la sofferenza. Si tratta di un modo per capire, per intendere, un modo attraverso il quale noi entriamo nella profondità del sapere, perché un conto è capire e uno è sapere: quanto a capire, capiamo niente; quanto a sapere, sappiamo molto ma non dipende da noi. Il capire dipende da noi e, proprio per questo, è un tentativo di carpire, agguantare, afferrare qualcosa; il sapere non dipende da noi, per fortuna, perché il sapere (cioè “gustare un sapore”), dipende, appunto, dal sapore: il gusto è in una condizione di passività; nel capire e nel comprendere siamo attivi, nel sapere siamo passivi. Se nel capire siamo attivi, la nostra attività è finita e il nostro capire è finito. Nel sapere siamo passivi, la nostra passività è infinità: possiamo subire tutto, possiamo soffrire tutto.
Nel subire e nel soffrire, la nostra passività può esser istruita infinitamente. Il sapere è la condizione nella quale noi veniamo istruiti: per sapere qualcosa non è necessario avere abilità esplicativa di questo qualcosa; se uno gusta un buon sapore, primo è contento perché sta gustando un buon sapore; secondo, è possibile che sia interessato a sapere come sia stato confezionato, preparato, etc.; quando tenta di capire, però, è in una posizione attiva. Il sapere vuol dire “gustare”; il comprendere vuol dire “spiegare”. La seconda attività è finita perché dipende da noi; nel gustare, invece, siamo passivi, dobbiamo arrenderci, non dobbiamo fare nulla.
Il metodo o la via della sofferenza è questo: la via che ci istruisce nel subire e nel sentirci assolutamente passivi. È il modo più istruttivo di tutti. Noi molte volte usiamo: “ho capito” ma in realtà abbiamo gustato, assaporato.
Un esempio autobiografico: viene mia nonna ad una conferenza. Alla fine la saluto. Lei mi fa: “non ho capito niente ma è stata bella”. Mi ha rincuorato! È stata sincera. Quindi: “non ho capito”, “non ho afferrato” ma “sono stata afferrata”. Conta afferrare o essere afferrati? Essere afferrati. Perché? Perché per afferrare a nostra volta, prima dobbiamo essere presi. Quando uno si applica nello studio di qualcosa, prima di studiare, gli interessa o no? Mai visto uno che si mette a studiare una cosa che non gli interessa. “Studiare” vuol dire “prendere”; “interesse” equivale ad “essere presi”. Io voglio catturare ciò da cui sono catturato, ciò da cui mi sento preso.
L’intero è uno: non ha falle, non ha mancanze. Nella teoria dell’intero, quello che prendiamo dall’esperienza e lo usiamo come analogia per significare ciò che più eccellente è nell’intero, dal punto di vista dell’intero, vale al contrario. Ho detto: “è un meccanismo naturale” il prendere qualcosa perché il suo interesse ci ha precedentemente catturati. Guardate che questa struttura è originaria, quindi si affaccia nella situazione di eccellenza che, come tale, è la situazione divina: esiste, nella situazione divina, non precisamente questo, che fungerebbe come esempio, ma qualcosa che ci dice da cosa dipende tutto ciò.
San Paolo, in Fil 3, 12 (Lettera ai Filippesi, Capitolo 3, versetto 12), dice: “Anch’io mi protendo nella corsa per raggiungerlo e afferrarlo; io, che sono stato afferrato da Cristo”. Non dice “Si salva chi raggiunge Cristo”. Cristo dice: “Io vengo velocemente”. Chi è capace di prenderlo? San Paolo: è vero che noi ci protendiamo nella corsa per afferrare Cristo ma perché siamo stati precedentemente afferrati. Così, nell’itinerario conclusivo del nostro destino di conoscenza è sempre San Paolo, Prima Lettera ai Corinzi, dopo avere trattato della carità, a dirci che il nostro destino è arrivare a conoscere noi stessi così come siamo conosciuti: “cognoscam sicut et cognitus sum” (mi conoscerò finalmente come sono conosciuto, 1 Cor 13, 12). La via della sofferenza è il metodo della passività.
Il nostro guaio è che noi, quando pensiamo alla passività, la realizziamo in un modo aristotelicamente deteriore. Non ho detto che l’aristotelismo è deteriore, attenzione; “aristotelicamente deteriore”, siamo capaci di deteriorare il povero Aristotele. Tu non hai letto neanche una riga di Aristotele! Egli parla della passività in modo eccellente. A Milano, ad esempio, c’è il primato dell’attivismo. “Chi può il più può il meno”. Bisogna cercare il forte che solleva 100 kg, se gli chiedi di sollevarne 20: “tutto qui”? L’attivo supera il passivo. Questo è Aristotele?
Fino a un certo punto. C’è anche, in Aristotele, il rovescio della medaglia: è vero che chi può il più può il meno ma è anche vero che chi può il meno può il più. Esiste un caso del genere. Ma come è possibile? Esistono potenze e facoltà che sono assolutamente passive. Se prendo la vista, questa è passiva: subisce l’impressione del colore e delle figure ma nella vista funziona il principio diametralmente opposto a quello enunciato prima: qui è vero il contrario. “Chi può il meno può il più”. Puoi leggere il bugiardino delle medicine? Sì? Se sei capace di leggere letterine minuscole, quando passi per strada e, a lettere cubitali, c’è scritto sopra un negozio: “Macelleria”, riesci a leggerlo o no? Certamente. Nell’ordine della vista, chi può il meno può il più.
Il subire (“Stare sotto”), il soffrire è un metodo di eccellenza. Ribalta il principio della forza assoluta. E allora cosa bisogna fare? Nulla! Accorgercene: ci accorgiamo del buon sapore. “Dai, adesso spiegami come è fatto!”. Non mi interessa. Gustare, gradire, implicano sforzi? No. Gradire Un Sapore Trovandolo Ottimo: G U S T O.
Però bisogna essere passivi, arrendersi al contenuto che ci afferra. Quindi esiste questo metodo della sofferenza: qui noi siamo istruiti, qui si impara tutto. Non comprendiamo niente ma sappiamo tutto. Si assapora tutto in questa passività. Per avere questo ingresso, occorre il minimo: l’attenzione, la capacità di far sì che possiamo accorgerci di qualcosa. Quando si è troppo presi dalla attività, non possiamo accorgerci di niente. Passiamo dalle strade fatte centinaia di volte, un giorno ti prende lo “struscio” (dal napoletano: passeggiata per la via principale di un paese nelle ore serali o festive, NdR). Ma guarda quel terrazzo! Non me ne sono mai accorto. Vuol dire che non l’abbiamo mai cercato. È come se lo sguardo fosse stato trascinato lì. L’accorgerci è la condizione con la quale noi siamo introdotti nell’assaporare le cose, nella sapienza, nel gusto. È il minimo indispensabile che ottiene il massimo usufruibile.
Questa è una via del cuore: non pensiate che il cuore sia una cosa, la ragione un’altra, quindi le ragioni del cuore, le ragioni della mente, etc. Momento. Il cuore è l’aspetto di sapienza, di maggiore intensità col quale noi intendiamo tutto: nella commozione la suprema gioia e la suprema tragicità di una esperienza coincidono. E, in questa dimensione della commozione, bisogna pensare che il cuore sia la facoltà per eccellenza. L’avete provata? Quando uno sente che ci sono casi che ti strappano via il cuore, senti che stai facendo una cosa buona perché ti scoppia il cuore; quella situazione, quando vedi la povertà, il bisogno, senti il cuore che ti tira dentro. Questo è il massimo del sapere. Questa si chiama “Ragione del Cuore”. E il resto? Non interessa.
Però non funziona più come il Sillogismo: questo, infatti, è il tentativo di comprensione e di spiegazione; ma uno comprende e spiega ciò da cui è preso. E come fa a lasciarsi prendere? Non dalla ragione sillogistica ma dalla ragione del cuore. In questo modo noi entriamo nel metodo della sofferenza, nel luogo della sapienza.
Però, capite, per sopportare bisogna avere appigli, appoggi, qualcosa sopra il quale tutto regge; ma senza sforzo, altrimenti saremmo attivi.
Siamo in piscina. Anzi, al mare. Nuotiamo. Eh, parolona… voglio vederti a fare il delfino io! “Ma no, guarda, mi accontento di galleggiare”. Si fa presto a dire “galleggiare”. Eh, no. Per galleggiare bisogna sapere galleggiare. Il sughero galleggia, sì; ma non si muove, è passivo. Esiste una forma di nuoto a tal punto radicale da essere tanto passiva quanto il galleggiamento del sughero ed è il vero galleggiare: fare il morto. È mica facile eh. Andavamo al mare, io e mio padre. La prima cosa che lui faceva dopo il tuffo, si girava e stava lì, a mo’ di morto. Provo anche io: andavo sotto col sedere. Chissà perché, quando devi stare a galla, inconsapevolmente non riesci a tirarti su. Ho provato con un mio compagno di noviziato. Gli ho detto: “fai la capriola e vai giù”. Niente, non riusciva, stava fuori col sedere. Dobbiamo arrenderci! Bisogna essere passivi! Come il morto!
Guardate come l’intero, nella sua struttura divina, ci cattura anche lì. Come si fa il morto? Mettendoci a forma di Croce. E perché ci mettiamo a forma di Croce? Perché quella lì, nella struttura originaria, è il senso della morte. La morte di tutte le morti è quella di Cristo, in croce.
Tertulliano, il grande Padre della Chiesa, diceva: “tutto l’universo prega”. Anche l’animale bruto alza il muso verso il cielo e muggisce ma in modo inesprimibile. Perché, noi siamo capaci di esprimerci nella preghiera? Sta scritto: “Nemmeno sappiamo cosa sia conveniente domandare”. Muti anche noi. E gli uccelli, appena si alzano in volo, aprono le ali a forma di croce.
Beccato! Questa è la struttura originaria. Bisogna entrare nelle Ragioni del Cuore, non attraverso un sillogismo, perché non c’è niente da spiegare: è la struttura che si affaccia, in mille modi, in tutti i casi possibili dell’universo creato. Questo si dice “cosmo” proprio perché non è una molteplicità disparata ma perché tende all’Uno. Universo: va verso l’Uno; e questo si affaccia in tutto. Questo Uno attrae, prende. Ciascuno dei molteplici, essendo preso da quell’Uno, cerca di prenderlo, volendo capire, ne fa gli esempi. Alla fine si accorge che, in tutta questa sua corsa, è stato preso prima lui: va tutto capovolto. La ragione che vince è la Ragione del Cuore.
Rimane il fatto che noi ci troviamo di fronte, non all’esempio di uno che galleggia, ma a qualche cosa che entra nel cosmo ma il cosmo sembra rifiutarla. La spazzatura è accettata dal cosmo? Cosmo – cosmesi - cosmetica. Una donna va in cosmesi per farsi bella o brutta? Non è che entra dentro bella e viene fuori come la spazzatura: la cosmesi rifiuta la spazzatura. E il cosmo, legato alla cosmesi, cioè all’ordine bello, può accettare la spazzatura? No, è contrario alla sua natura! Il cosmo rifiuta la spazzatura. Questo è il discorso di coloro che cercano di dimostrare l’esistenza di Dio a partire dalla bellezza delle cose. “Guarda, le cose sono molto belle, è impossibile che il mondo sia casuale, ci deve essere minimo un’intelligenza ordinatrice per giustificare la bellezza delle cose”. Ad esempio, un fiore: guarda quanto è bello. E quando un fiore marcisce, diventa rifiuto? Davvero? Allora, se è così, o Dio è morto o Dio è cattivo. Finché il fiore è bello dici: “Dio è buono, è somma intelligenza”; quando marcisce dovrebbe essere morto o birichino. Praticamente, Dio non c’è. Il cosmo si darà da fare per allontanare il proprio rifiuto ma questo c’è e pretende il proprio diritto, anche lui è un cosmopolita; l’imperfezione, il difetto, quello che chiami “rifiuto”.
Allora bisognerà rivedere l’idea che noi abbiamo del bello e della cosmicità del mondo. Se non rivediamo correttamente idea della cosmicità, va a finire che ci facciamo idea della comicità del mondo. Facciamo figura dei comici quando parliamo del mondo. Bisogna rivedere questa idea di cosmo perché il rifiuto c’è ed è cosmopolita. Vediamo quali sono i canoni della bellezza, secondo i classici:
-          Integrità (integritas);
-          Debita proporzione (debita proportio sive consonantia);
-          Chiarezza (claritas).
“Guarda che bella questa scrivania!”. Ma gli manca una gamba? E allora, come può essere bella? “Quest’altra invece ha tutte e quattro le gambe”. Bellissima. Ma dondola: non è proporzionata. Il bene è tale perché si presenta nella sua integrità. Bonum ex integra causa: malum ex quocumque defectu”: il bene è tale perché si presenta nella sua integrità ma qualsiasi minimo difetto, anche un difettuccio, compromette il bene stesso. Noi pensiamo che il cosmo sia completamente integro, debitamente proporzionato, quindi armonioso e noi lo possiamo contemplare. Quando nel cosmo si affaccia il rifiuto, si tratta di qualcosa di disintegrato o che tenta di disintegrare oppure di qualcosa che è sgraziato perché toglie l’armonia: nel cosmo quante cose sono fatte così, ti impediscono di dire “che bello!”. Ma quelli che chiamiamo “rifiuti” sono sempre dentro l’ordine.
E avremo sempre l’obiezione: “allora Dio è morto o non è buono!”. Perché quando diciamo che “il primo criterio della bellezza è l’integrità” (e dobbiamo rispettarlo) cosa vuol dire? “Integro”: non manca di nulla. Noi, a Bologna, mica siamo tutti alti uguali: c’è lo spilungone, c’è quello medio. Il mio direttore spirituale era il più piccolo di tutti: un cesellatore di anime nel confessionale. Se gli capitavi quando aveva perso il Bologna, ti mangiava. Ma se entrava nel Confessionale, il suo habitat… un cesellatore. Era direttore della basilica, Sapeva come manovrare tutti gli attrezzi, comprese le seggiole del presbiterio (anche la sua). Ma se la seggiola fosse pari a quella delle altre, tutti saremmo seduti allo stesso modo, tranne uno. Allora cosa fa? Taglia di due o tre centimetri la sua seggiola. Finché la usava lui ok. Ma quando concelebravamo, c’era il cerimoniere: arrivati tutti, ci si sedeva. Se troviamo una cosa scompensata, immediatamente la cosa diventa inutile. Buttiamola via.
“Cosa sono quelle scarpe vecchie? Eh, che roba, butta via! Un po’ di repulisti”. Qui deve essere tutto ordinato. Ma tu sei proprio un seguace del criterio della integritas? Quello che tu chiami “rifiuto”, se c’è, avrà le sue cause? Lo chiami come ciò che è disintegrato, disarmonioso, non perché gli manca qualcosa, ma forse manca qualcosa a te per poterlo vedere integrato. Bisogna guardare le cose nella loro integrità.
“Queste scarpe hanno fatto la guerra. Me le ha portate Fra Galdino”.
E cosa faceva?
“Era un fratello cooperatore, riusciva a fare anche 80 km”.
Dopo come è finito?
“Mah, non l’hanno più trovato, hanno fatto una retata”.
E tu di un uomo così prendi le scarpe e le butti via? Toccale bene, sono una reliquia, non un rifiuto! Quando tu vai in un santuario, baci il rifiuto o baci la reliquia? Oh, si chiama così. Addirittura, si trovano in teche di vetro. E le scarpe? Sono sempre quelle. Ma basta un po’ di attenzione e ti accorgi che non c’è niente, nel cosmo, che non sia cosmetico. A lui non manca niente; mancava qualcosa a te.
Da completare con l’istinto spirituale di attrattiva verso l’Uno: da rifiuto diventa reliquia. Ma se non sei attento, se non sei attratto, non lo vedi. Questa attrattiva appartiene alla passività, alla sofferenza. Quando siamo strappati nel cuore si sente tutto; si assapora tutto, si diventa dei poeti. Bisogna imparare dai poeti perché essi hanno sguardo reliquiario: fanno vedere l’invisibile attraverso il visibile.
C’è un bellissimo testo del Pascoli: il Myricae. Sapete cosa sono le Myricae? Ricordate:
“Sicelides Musae, paulo maiora canamus! Non omnis arbusta iuvant humilesque myricae  si canimus silvas, silvae sint consule digae”  (“O muse siciliane, cantiamo cose un po' più alte!  Non a tutti giovano gli albereti le umili tamerici; se cantiamo le selve, le selve siano degne del console”).
È l’Egloga IV di Virgilio, quella che era stata interpretata, dalla cristianità, come una profezia pagana del Cristo.
Nel Myricaes di Pascoli c’è una dedica al padre defunto e una chiusa che è bellissima, perché paragona la morte alla chiusura degli occhi: “quando gli occhi si chiudono e ripongono come in uno scrigno la visione, per sempre”. “Per sempre”. Questa è la poeticità: ti porta via. Dà il senso poetico alle metafore usate precedentemente. Il poeta compie questa strana acrobazia che non è pilotata attivamente, ma si sente attratta passivamente da quel punto centrale o focale dentro il quale si rifugiano come attraverso tanti raggi tutte le cose. E lì dentro c’è il senso del cosmo ma, al di fuori di quello, tutto, spaiato, è sempre rifiuto. All’interno di quello anche ciò che chiamiamo “rifiuto” è “reliquia”, nobile.
Voi conoscete Georges Bernanos? È gustosissimo. Ma bisogna stare attenti. Ha scritto “I dialoghi delle Carmelitane”, testo teatrale bellissimo, ispirato da uno scritto di Gertrude Von le Fort, (“L’ultima al patibolo”, 1931), è la storia di queste diciotto carmelitane ghigliottinate durante la Rivoluzione Francese. Erano sedici, perché una è stata condannata in contumacia: il cappellano, quando lei volle immolarsi con le altre, le disse di continuare a vivere: “il tuo martirio è questo”. E poi c’era l’ultima, Suor Bianca dell’Agonìa di Gesù. È bellissimo il testo di Bernanos perché? Perché va letto poeticamente, non poematicamente: devi andare a vedere dove si nasconde il frammento. Questi dialoghi, se li leggi come fossero un’istruzione al sacrificio, all’immolazione, al coraggio non dicono molto; se li leggi al contrario, dal verso di chi si riteneva coraggioso e muore in un modo straziante, come se non avesse più la Fede, dice tutto, è bellissimo (c’è stato anche un film nel 1959 tra l’altro, molto bello anche questo). Il dialogo tra lei e la priora, all’inizio, è come un’istruzione sul coraggio che si deve avere. “Non si deve soffocare la natura ma si deve vincerla”; in realtà è una cosa che col Cristianesimo ha poco a che fare, più vicina allo stoicismo forse. La cosa che più è nascosta, ma se uno ha lo sguardo poetico la prende subito, la si trova in un’espressione brevissima. La priora è malata e, dopo avere istruito Bianca, che vuole prendere come nome “dell’Agonia di Gesù”, rimane un po’ perplessa, e spiega alla sottopriora il suo tentennamento: perché ella stessa, al momento di entrare nel Carmelo, aveva scelto questo nome ma, al tempo, non le era stato dato. E quando, sul letto di morte, la chiama, affidando la novizia alla sottopriora e dà come ultimo suo ordine che si accetti “Suor Bianca dell’Agonia di Gesù”afferma:
“se fossi stata ai tempi della mia salute, ti avrei dato la mia vita; adesso non posso darti che la mia povera morte”.
Finita la scena, c’è disperazione e inizia l’agonìa: non vede più niente, muore in modo disperato e sconsolato, sembra un personaggio negativo; il problema è alla fine, perché sedici vanno al patibolo, due n: la sottopriora, Maria dell’Incarnazione e Suor Bianca, che era scappata. Ma quando si accorge che vengono portate col carro alla ghigliottina, lei si avvicina, mentre le altre cantano il “Veni Creator Spiritus”; via via le voci vengono meno naturalmente; quando c’è ormai rimasta una sola voce, ad un certo punto si sente una voce tra la folla: Suor Bianca si avvicina alla ghigliottina ed è l’ultima a salire al patibolo. Lei che era scappata. Torniamo indietro: “Ti voglio così bene che se fossi stata in forze ti avrei regalato la mia vita, non posso che regalarti la mia povera morte”. Cosa avete capito? Lei, Suor Bianca, che non era coraggiosa, ha avuto il dono del coraggio dalla priora! Quest’ultima è morta in modo disperato: “Ti do il modo in cui morirei”.
Questa visione del frammento che suggerisce il modo integro con cui prendere il senso globale dei Dialoghi, è la stessa strategia che dobbiamo utilizzare di fronte a ciò che noi consideriamo rifiuto, perché disdicevole. Ma non è disdicevole. La priora si è caricata di quella che sarebbe stata la tragedia dell’ultima. Quello che noi pensiamo essere distorto dobbiamo leggerlo in un’ottica intuitiva; il maestro della Parola, il poeta di tutti i poeti è quello che in un’unica Parola dice tutto: “Il Verbo Eterno del Padre”. Qui c’è tutto. Allora il tutto appare come cosmo: vai a caccia di qualsiasi aspetto, anche quelli non evidentemente belli, perché sei capace di vederli come reliquie. “Nulla vada perduto. Dei pezzi avanzati portarono via 7 sporte piene”. Capite? Tutto è conservato, non si butta via niente.
Questa è la via della sofferenza: accettarsi nella passività di essere catturati, prima ancora di essere i promotori della cattura del divino; è lui che ci cattura e trascina, anche nell’ultimo gesto. Avete sentito l’introduzione alla serata prima? Lo Stabat Mater di Jacopone da Todi. È una forma melismatica, un po’ partenopea, a cappella. Come finisce lo Stabat Mater? “Quando corpus morietur fac ut animae donetur paradisi gloria”. Allora? La “a” di “gloria” è sospirata: “aaaah”. Ha esalato l’ultimo respiro.

Padre Giuseppe Barzaghi 





venerdì 28 giugno 2013

La guerra dello Stato alla famiglia

[Da un paper scritto e dato alle stampe, successivamente, nel 1991].
Il destino delle famiglie e dei bambini Svedesi mostra la verità dell'osservazione di Ludwig von Mises, per cui "nessun compromesso è possibile tra il capitalismo e il socialismo". Qui spiegherò come la crescita del Welfare State possa essere vista come il trasferimento della funzione di "dipendenza" dalle famiglie ai funzionari pubblici. Il processo, in Svezia, iniziò nel diciannovesimo secolo, attraverso la socializzazione del tempo economico dei bambini grazie all'obbligo di frequenza scolastica, alle leggi sul lavoro minorile e alle pensioni di vecchiaia statali. Questi cambiamenti incentivarono scarsa o nulla natalità. Negli anni '30 del '900, i socialdemocratici Gunnar e Alva Myrdal usarono la conseguente "crisi demografica" per sostenere la completa socializzazione dell'allevamento della prole. La loro "politica familiare", implementata nei 40 anni successivi, distrusse virtualmente l'autonomia familiare Svedese, sostituendola con una "Società Clientelare" (Client Society) nella quale i cittadini sono assistiti continuamente dai funzionari pubblici. Mentre la Svezia sta provando ad uscire dalla trappola welfaristica, i vecchi argomenti favorevoli alla socializzazione dei bambini stanno prendendo piede negli Stati Uniti.
_________________________________________________________________________________

Nel suo libretto “Bureaucracy”, Ludwig von Mises afferma: il socialismo moderno “cura l’individuo dall’utero alla tomba”, mentre “i bambini e gli adolescenti sono integrati saldamente negli apparati di controllo dello Stato”.
Altrove, contrappone il “capitalismo” e “socialismo”, per concludere:
non c’è compromesso possibile fra questi due sistemi. Contrariamente a quanto pensa erroneamente il popolo, non c’è via di mezzo, non c’è un terzo sistema possibile come modello di ordine sociale permanente”.
Le mie osservazioni mettono a fuoco la validità della dichiarazione, attraverso il destino delle famiglia e dei bambini nella "terza via" svedese.
In Svezia, troviamo un caso classico di manipolazione burocratica atta a distruggere il rivale principale dello Stato quale centro di lealtà: la famiglia. Osservando questa rivalità, è importante capire che un livello base di “dipendenza” è una costante in tutte le società. In ogni comunità umana, ci sono infanti e bambini, anziani, individui con handicap severi ed altri che sono gravemente ammalati. Costoro non possono prendersi cura delle proprie vite. Senza aiuti, morirebbero. Ogni società deve caricarsi della cura spettante a queste persone.
Nelle società libere, l’istituzione naturale della famiglia (completata e sostenuta dalle comunità locali e dalle organizzazioni volontarie) fornisce la protezione e la cura di cui queste persone hanno bisogno. Effettivamente, è nella famiglia (e solo nella famiglia) che il principio del socialismo funziona: da ognuno secondo le sue abilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni.
La crescita imponente del welfare state può essere vista come il trasferimento costante della funzione di “dipendenza” dalla famiglia allo Stato, dalle persone legate da vincoli di sangue, dall’unione matrimoniale o dall’adozione alle persone vincolate dall’impegno pubblico. Il processo è iniziato in Svezia nel secolo scorso, con progetti burocratici di smantellamento dei legami fra i genitori e i loro bambini.
Seguendo lo schema classico, la prima imposizione data 1840, con il passaggio ad una legge che decreta l’obbligo di istruzione scolastica: mentre veniva giustificata come “misura per migliorare la conoscenza ed il benessere generale”, la socializzazione dei bambini costituì la profonda forza motrice, basata sull’assunto per cui i funzionari di Stato (burocrati svedesi) conoscono le necessità e i bisogni dei bimbi meglio dei genitori stessi, i quali non erano ritenuti in grado di proteggere i loro figli dallo sfruttamento.
Il passo seguente, nel 1912, fu la legislazione mirata a vietare il lavoro dei bambini nelle fabbriche e, in una certa misura, sui poderi. Ancora, il presupposto implicito era costituito dalla conoscenza migliore, da parte dei funzionari dell’assistenza sociale, delle necessità dei bambini.
Il passo finale arrivò quasi contemporaneamente: il governo svedese introdusse un programma pensionistico e di assistenza alla vecchiaia che diventò, rapidamente, universale. La motivazione di fondo, qui, consisteva nella volontà di socializzare un’altra funzione di dipendenza: la dipendenza degli anziani e dei deboli dagli adulti. Da sempre, la cura degli anziani riguardava la famiglia. Da quel momento in poi, divenne preoccupazione dello Stato. Prendendo tutte queste riforme assieme, l’effetto netto, evidentemente, è la socializzazione del valore economico dei bambini. L’economia naturale della famiglia ed il valore apportato dai bambini (collaborando all’impresa familiare e fungendo da "assicurazione" per l’anziano) venne estirpata.
I genitori subirono una crescita dei costi per l'educazione e il sostentamento dei figli ma il beneficio economico che, eventualmente, avrebbero rappresentato, fu forzosamente destinato alla “società”, cioè allo Stato.
Il prevedibile risultato di questo cambiamento (come un economista della “Gary Becker School” direbbe) comporterebbe una diminuzione della domanda di bambini: questo è avvenuto in Svezia. Cominciando dalla fine del 1800, la fertilità svedese è entrata in caduta libera per arrivare, al 1935, all’indice di natalità più basso del mondo, sotto il livello dello “sviluppo zero”, in cui una generazione riesce appena a sostituirsi. Per la teoria standard della transizione demografica, questo calo costituiva una conseguenza necessaria ed inevitabile della industrializzazione moderna: l’economia capitalista interromperebbe i rapporti tradizionali familiari. Mentre è vero che la struttura tradizionale della famiglia affronta un nuovo genere di sforzo nella società industriale, recenti ricerche suggeriscono che la più grande sfida alla famiglia, di fatto, è derivata dallo sviluppo dello Stato.
Guardando all’evidenza empirica plurinazionale, il demografo Ryder Norman dell’università di Princeton, addebita il declino della fertilità alla scolarizzazione di massa.
“L’educazione delle giovani generazioni è un’ influenza sovversiva” afferma.
Le organizzazioni politiche, come le organizzazioni economiche, richiedono devozione e tentano di neutralizzare il particolarismo della famiglia. C’è una lotta fra la famiglia e lo Stato per le menti dei giovani”: l’obbligo scolastico imposto dallo Stato è “lo strumento principale per la formazione della cittadinanza, un appello diretto ai bambini sopra le teste dei loro genitori”.
Confermando la validità universale dell’esempio svedese, Ryder sostiene che,  mentre l’educazione obbligatoria  accresce i "costi" di educazione e mantenimento della prole stessa, i divieti al lavoro riducono ulteriormente il valore economico dei piccoli. Inoltre, un sistema di previdenza sociale taglia i legami naturali fra le generazioni, lasciando lo Stato come luogo di lealtà assoluta.
Mentre il sistema nazionale familiare può riorganizzarsi, per un certo tempo, intorno all’unità del nucleo “marito-moglie” per la riproduzione, persino l’indipendenza di base tende a dissolversi.
Il risultato finale dell’intervento dello Stato, afferma Ryder, è una progressiva diminuzione della fertilità, con individui destinati a restare soli, in un rapporto di dipendenza con lo Stato.
Le contraddizioni inerenti a questo metodo di organizzazione sociale sono scoppiate in Svezia all’inizio degli anni '30. Con il tasso di natalità che cadde sotto il livello dello sviluppo zero, i conservatori svedesi iniziarono una frenetica contromossa alla “minaccia di spopolamento”, con successiva scomparsa dei bambini svedesi. Per queste voci, il problema era costituito dalla dislocazione spirituale o dal declino del cristianesimo, dall’aumento del materialismo o dall’egoismo personale. Nessuno focalizzò il problema adeguatamente, nemmeno nello spettro politico destrorso, addebitandolo alla legislazione educativa e sociale dei novant’anni scorsi. Avendo la “crisi della popolazione” raggiunto il livello di guardia in Svezia, l’occasione era matura per mettere in atto demagogia e sfruttamenti.
[...]
In questa situazione, sguazzarono due giovani scienziati sociali svedesi, Gunnar Myrdal e sua moglie, Alva Myrdal. Prima di entrare nel merito del loro uso e abuso della questione, permettetemi di dire qualcosa a proposito del loro background e delle influenze che esercitarono sul loro lavoro.
Il paternalismo burocratico ha una lunga storia in Svezia, ancorato nell’apparato dirigista costruito dai Re Vasa agli inizi del sedicesimo secolo e promosso attraverso la distruzione dell’autonomia regionale quale risposta alle rivolta capitanata da Nils Dacke degli anni ’40 del 1500. Eppure i Myrdals rappresentarono qualcosa di nuovo, molto “moderno”. Erano scienziati sociali – intellettuali accademici – intenti a sostenere un nuovo tipo di attivismo statale. Come spiegò Alva stessa: “La politica è [ora]… stata portata sotto il controllo della logica e della conoscenza tecnica: è diventata, sostanzialmente, ingegneria sociale costruttivista”.
Secondariamente, sebbene la ripetizione del mantra svedese (il “modello svedese”) ammorbi l’America, è importante notare quanto del nuovo Welfare State svedese poggiò sulla sperimentazione americana. Entrambi i Myrdals spesero gli anni accademici 1929 e 1930, i mesi calanti della “Era Progressista”, viaggiando negli Stati Uniti, attraverso sponsorizzazioni sostenute dalla Laura Spelman Rockfeller Foundation. Durante questo periodo, Alva Myrdal cadde sotto l’influenza della “Scuola sociologica di Chicago”. William Ogburn, in particolare, le trasmise la visione dello Stato e della scuola quali fenomeni destinati alla crescita a scapito della famiglia; la famiglia si sarebbe trovata di fronte ad una “perdita di funzioni”, essendosi tirata fuori dalla storica presenza quale faro sociale.
Alva passò, altresì, diverso tempo al Child Development Institute of Columbia University e visitò istituti di accoglienza prescolastica sperimentali della Rockefeller Foundation, esempi di “genitorialità sociale” che la impressionarono fortemente.
Per parte sua, i lavori di Gunnar Myrdal alla Columbia e all’Università di Chicago lo resero consapevole della tremenda potenzialità politica insita nel dibattito svedese sullo “spopolamento”.
In un importante articolo del 1932, “Social Policy’s Dilemma” (Il Dilemma della Politica Sociale, NdT), per il giornale d’avanguardia svedese, Spektrum, Gunnar Myrdal sottolineò l’importanza dello strumento politico: tracciò il compromesso in Europa, prima del 1914, da un “socialismo a sfondo liberale” a un “liberalismo a sfondo socialista”; sotto questo regime, sostenne Gunnar, il liberalismo del diciannovesimo secolo abbandonò il pessimismo Malthusiano e il “dogmatismo” di libero mercato, abbracciando la necessità di riforme atte a proteggere i lavoratori; mentre i socialisti cedettero sugli scopi della rivoluzioni e sulla necessità di massiccia redistribuzione della proprietà privata, esprimendo soddisfazione nella gradualità di aiuti verso la classe lavoratrice.
La Guerra Mondiale, tuttavia, distrusse questo compromesso. Myrdal dichiarò il liberalismo classico “morto” e i suoi partigiani dispersi. Sostenne la necessità di re-radicalizzazione dei movimenti operai e cercò di sviluppare un nuovo tipo di politica sociale. Sotto il vecchio compromesso, secondo Myrdal, le politiche erano orientate dai sintomi, attraverso gli aiuti ai poveri o agli ammalati; la nuova politica sociale doveva prevenire tutto questo. Gli scienziati sociali, utilizzando le moderne tecniche di ricerca, avevano il potere di usare lo Stato per prevenire l’emergere di patologie sociale. Questa politica preventiva, quando basata su premesse antropocentriche valoriali e sulla razionalità scientifica, avrebbero condotto al “matrimonio naturale” della tecnica corretta con la soluzione politica radicale. Myrdal si riferì alla crisi svedese quale opportunità di analisi sociologica razionale al fine di produrre idee effettive e radicali per imprimere, attraverso lo Stato, il cambiamento.
I Myrdals concretizzarono questo programma nel loro best seller del 1934, Crisis in the population question, un volume brillantemente argomentato che, sostanzialmente, trasformò la Svezia. Mentre i conservatori svedesi continuavano ad agitarsi sulle questioni sessuali, i Myrdals puntarono direttamente alle contraddizioni create da un incompleto welfare state. Le azioni pubbliche precedenti, quali l’oblio scolastico, il divieto lavorativo infantile e le pensioni di Stato, ammisero i coniugi, strapparono via il valore dei bambini alle famiglie. Ma i costi rimasero a casa. Di conseguenza, le persone che contribuivano alla sopravvivenza nazionale attraverso la filiazione, furono spinte nella povertà, in abitazioni scadenti, costretta a nutrizione di bassa qualità e limitate opportunità ricreative. Una scelta volontaria tra la povertà con figli o uno standard di vita migliore senza di essi: questo era il dilemma. Giovani adulti furono forzati a supportare i pensionati e i bisognosi attraverso il sistema welfaristico statale e, altresì, i bambini stessi. Sotto questo carico pesantissimo, scelsero di ridurre il numero di neonati; questo era l’unico fattore che potevano influenzare. Il risultato, per la Svezia, fu la de popolazione e lo spettro dell’estinzione nazionale.
Secondo i Myrdals, c’erano solo due alternative. La prima – lo smantellamento dell’istruzione statale, delle leggi sul lavoro e delle pensioni di vecchiaia al fine di restaurare l’autonomia familiare – non “valeva la pena” fosse discussa. L’altra, l’unica alternativa possibile, era il completamento del Welfare State e la rimozione dei disincentivi alla filiazione attraverso la socializzazione dei costi diretti nella nascita e nel mantenimento. Il vero argomento suonava così: al fine di risolvere i problemi causati, in larga parte, dagli interventi statali precedenti, lo Stato deve ora intervenire con maggiore vigore completando l’opera.
Questo comportava  l’adesione a un nuovo tipo di welfarismo:
“riguarda una politica sociale preventiva, guidata strettamente dallo scopo di aumentare la qualità del materiale umano e, allo stesso tempo, portare a compimento politiche di redistribuzione radicale socializzando i costi di mantenimento e allevamento della prole”.
La burocrazia statale non aveva mai goduto di tale mandato. Dall’etimologia stessa della parola, una politica “preventiva”  riguarda l’aiuto, lo scrutinio e il controllo delle famiglie. Non possiamo sapere con certezza dove il problema si verificherà, quindi, misure universali di burocratismo devono essere implementate al fine di rendere la prevenzione realtà.
Sottolineando questa necessità, i Myrdals conclusero:
“la questione demografica , quindi, viene trasformata nel più forte argomento per una pesante e radicale riforma socialista della società”.
L’alternativa, a detta loro, era l’estinzione nazionale.
Il loro programma includeva indennità di Stato per il vestiario dei bambini, un piano di assicurazione universale, il diritto all’asilo nido, campi estivi statali per bambini, pasti e colazioni scolastiche pubbliche, acquisti immobiliari incentivati, bonus per i nuovi nati al fine di coprire i costi di nascita indiretti, prestiti matrimoniali, espansioni della maternità retribuita, servizi ostetrici, pianificazione economica e via dicendo. Il loro obiettivo era, in definitiva, la socializzazione del consumo, fornendo alle famiglie un set di servizi razionalmente determinato, gestito da funzionari pubblici e finanziato attraverso l’imposizione fiscale sul resto della popolazione.
I critici del programma suddetto ricevevano sempre la dura risposta: “la piccola famiglia moderna è… patologica” dicevano i Myrdal.
“I vecchi ideali devono morire con le generazioni che li promuovevano”.
Appelli alla libertà e all’autonomia familiare suscitavano risposte altrettanto pungenti. I Myrdals sostennero che il “falso desiderio individualista” dei genitori per la “libertà” di crescere i propri bambini aveva una malsana origine: “… molti degli sforzi profusi per difendere la ‘libertà individuale’ e la ‘responsabilità per la propria famiglia’, sono basati su una disposizione sadica di estensione di questa ‘libertà’ al diritto incontrollato e illimitato di dominare gli altri”.
Al fine di crescere i bambini idoneamente per la partecipazione in un mondo sociale cooperativo “dobbiamo liberare i bambini da loro stessi” indirizzandoli agli esperti di Stato per la cura e la crescita. L’asilo collettivo di Stato, piuttosto che la patologica famiglia d’origine, era utile al fine di eliminare le classi sociali e costruire una società democratica.
Fra il 1935 e il 1975, l’agenda dei Myrdals guidò, con svariate interruzioni, l’evoluzione del Welfare State svedese. Periodi di attivismo politico e burocratico – dal 1935 al 1938, dal 1944 al 1948 e dal 1965 al 1973 – furono punteggiati dall’ostinata resistenza della popolazione Svedese o da limiti fiscali endogeni che ritardavano l’implementazione compiuta. Eppure, alla fine del processo, la maggior parte dell’agenda Myrdal fu portata a termine.
Quali furono i risultati specifici? Con la famiglia esautorata di tutte le funzioni produttive, assicurative e assistenziali (nonché di consumo) i risultati dovrebbero essere ovvii: il tasso di nuzialità cadde al minimo storico tra le moderne nazioni mentre la percentuale di adulti in solitudine crebbe. Nella centrale Stoccolma, per esempio, due terzi della popolazione viveva in appartamenti per single, alla metà degli anni ’80. Con i costi e benefici degli infanti pienamente socializzati e con i “proventi” naturali economici matrimoniali intenzionalmente eliminati per decreto, la filiazione fu separata dal matrimonio: nel 1990, ben oltre la metà dei lattanti nascevano fuori dal matrimonio.
I bambini, altresì, godevano quali “diritti” di un insieme di vantaggi forniti dallo Stato: cure mediche e odontoiatriche; trasporto pubblico a prezzi contenuti; cibi pubblici; educazione pubblica e addirittura “consiglieri per bambini” disponibili a intervenire nel caso i genitori avessero superato i loro limiti. I bambini non avevano più bisogno della famiglia: ora lo Stato faceva da genitore.
Effettivamente, il sociologo dell’Università di Rutgers, David Poponoe, suggerì che il termine “welfare state” non rendeva più giustizia a questa forma di totale dipendenza dallo Stato. Invece, egli usò l’etichetta “Client Nation” per descrivere una nazione “in cui i cittadini sono, per lo più, clienti di un largo gruppo di funzionari pubblici che curano i loro interessi”.
In Svezia, i più anziani sono “liberi” dalla potenziale dipendenza sui bambini cresciuti; i neonati, i bambini e i teenagers sono “liberi” dalla dipendenza genitoriale; gli adulti sono “liberi” da qualsiasi significativo impegno sia verso i loro genitori sia verso i bambini e le donne e gli uomini sono “liberi” da qualsivoglia reciproca promessa una volta inclusa nel matrimonio. Questa “libertà” è stata conquistata in cambio di una generale, comune dipendenza dallo Stato e la quasi completa burocratizzazione di quella che, una volta, era la vita familiare. Von Mises aveva ragione: non c’è nessuna “via di mezzo”; piuttosto, la Svezia rappresenta una versione completa  e quindi più oppressiva dell’ordine domestico socialista, sorpassando addirittura l’organizzazione sovietica. Ma il moderno Welfare State svedese contiene le sue contraddizioni interne: i problemi stanno ora venendo al pettine.
Per cominciare, la “contraddizione demografica” non è così facilmente superata. Nell’ordine democratico, coloro che controllano il maggior numero di voti ottengono grandi guadagni. Ed anche in Svezia gli anziani votano, i bambini no. Mentre la “politica familiare” Svedese è stata efficace nel distruggere la famiglia quale entità indipendente, non ha avuto successo nell’arrestare il flusso netto di programmi statali e reddito dai giovani verso gli anziani.
Secondariamente, il client state non potrà mai fornire tutta l’assistenza sociale necessaria, perché tutto questo sarebbe troppo costoso. Eppure, allo stesso tempo, le famiglie, nel welfare state, sono penalizzate quando tentano di provvedere da sé ai loro bisogni, perché, così facendo, perdono i vantaggi dell’assistenza pubblica; sono premiate con le cure di Stato solo quando terminano la loro opera sociale. Il funzionario di Stato danese Bent Andersen spiegò il problema così:
“Il welfare state razionale ha una contraddizione interna: se intende compiere le sue funzioni, i cittadini devono astenersi dallo sfruttare pienamente i suoi servizi – cioè, devono comportarsi irrazionalmente, motivati da controlli sociali informali i quali, tuttavia, tendono a scomparire con la crescita del welfare state”.
Questa contraddizione è stata la forza motrice delle recenti ribellioni contro il moderno Client State, una ribellione partita (nella Scandinavia) in Danimarca e Norvegia, attraverso il successo elettorale dei partiti progressisti anti statalisti e si è ora diffusa in Svezia. Proprio lo scorso mese, i socialdemocratici svedesi hanno subito una pesante sconfitta politica, perdendo potere nelle elezioni nazionali a favore di una coalizione di centrodestra, tenuta insieme dalla promessa comune di tagliare il welfare state. Particolarmente sorprendente è stata l’emersione di due nuovi partiti, che hanno ottenuto seggi nel Parlamento Svedese per la prima volta.
Il primo di questi – i Cristiani Democratici – fece del triste stato della famiglia svedese il punto centrale della sua piattaforma. Promuovevano una diminuzione dell’interferenza burocratica nella vita familiare e la fine agli incentivi di Stato che incoraggiano nascite al di fuori del vincolo matrimoniale e scoraggiano la cura genitoriale dei bambini. L’altro nuovo partito, “Nuova Democrazia”, combina temi libertari di pesanti riduzioni di imposte e tasse, benefits di Stato e fine del foreign aid (NdT.: aiuti esteri) con misure diverse per frenare l’immigrazione. Insieme, formano l’ago della bilancia del potere parlamentare. Raramente l’eliminazione del welfarismo è stata effettivamente vincente, in qualsiasi nazione moderna; ma, per la prima volta dagli anni ’30, gli svedesi hanno l’opportunità di recuperare un pizzico di autonomia familiare e libertà personale.
Comunque, sembrerebbe che la “terza via”, il modello svedese, goda di pessima fama, così come il Comunismo, la seconda via, è collassato completamente. Sfortunatamente, il modello vive – e successivamente potrebbe prosperare – qui negli Stati Uniti, dove la logica e gli argomenti dei Myrdals, usati negli anni ’30, sono sul punto di conquistare la nazione.
In un libro del 1991, intitolato “When the Bough Breaks” (quando i rami si spezzano), edito dalla Basic Books (la più influente casa editrice ne conservatrice), l’economista Sylvia Ann Hewlett scrive:
“Nel mondo moderno, non solo i bambini risultano ‘senza valore’ per le loro famiglie, ma comportano esborsi monetari importanti. Stime indicano i costi di crescita e mantenimento da un minimo di 171.000 a un massimo di 265.000 dollari. A fronte di tali spese ‘un bambino fornisce amore, sorrisi e soddisfazione emotiva’ ma nessuna fonte di reddito”.
Continua:
“il che ci porta al dilemma Americano. Noi ci aspettiamo che i genitori spendano somme straordinarie di denaro ed energia nell’educazione dei loro bambini, quando è la società, collettivamente, che raccoglie i frutti di questa opera. I costi sono privati; i benefici sono, sempre più, pubblici… Ad oggi, fidarsi dell’irrazionale incentivo genitoriale all’allevamento della prole è un rischio avventato. È tempo di imparare a dividere i costi e i carichi dell’educazione e della crescita dei nostri bambini. È tempo di prendere responsabilità collettive per le prossime generazioni”.
La Hewlett prosegue nell’impostazione della nuova agenda politica americana, includendo astensioni dal lavoro per maternità/paternità obbligatorie, libero e garantito accesso all’assistenza medica pediatrica, asili e scuole materne di  Stato, “investimenti dell’educazione”, sussidi abitativi sostanziali per le famiglie con bambini e così via.
Vi suona familiare? Dovrebbe: questi erano gli argomenti e l’agenda proposta agli svedesi da Alva e Gunnar Myrdal, nel 1934, seppur tosata della retorica socialista radicale. Tuttavia, questo è un libro che ha condotto il Presidente (ora pensionato) di Proctor and Gamble, Owen Butler, a dichiarare:
“La conclusione è inevitabile. A meno di investire più saggiamente nei nostri bambini oggi, il futuro economico e sociale della nazione è in pericolo”.
Questi sono gli argomenti utilizzati dalla cosiddetta “nuova politica infantile” a Washington.
Allo stesso tempo, “politica sociale preventiva” è diventato il grido di battaglia di altri Americani “per il cambiamento”. Gli argomenti suonano familiari: l’aiuto di Stato nell’infanzia è più efficace dell’aiuto successivo; più aspettiamo e più costoso sarà intervenire; “interventi precoci presentano il problema di tutti gli investimenti per la crescita – i dividendi arrivano dopo”, etc. Tutto suona ragionevole, in un certo senso, ma il risultato finale sarà costituito dalla concretizzazione di un incubo burocratico e dalla virtuale distruzione della famiglia in America.
Nel report di Settembre dello US Advisory Board (Consiglio) sugli abusi infantili, cogliamo il “profumo” dell’ordine americano prossimo. Questo gruppo di consiglieri, designato esclusivamente dalle amministrazioni Bush e Reagan, ha dichiarato l’abuso infantile “emergenza nazionale”, aggiungendo: “nessun altro problema eguaglia la sua forza di esacerbare malattie sociali”. Il senso del report è questo: il governo federale e gli Stati hanno speso troppo tempo nell’investigare sospetti casi di abusi; invece, il governo federale dovrebbe concentrarsi sulla prevenzione. Il Consiglio raccomanda lo sviluppo di un programma federale di “visite familiari” ai nuovi genitori e ai loro figli da parte di competenti funzionari pubblici e degli assistenti sociali, che potrebbero identificare potenziali vittime e carnefici ed aiutarli.
Oltre al “burocrate in ogni casa”, il Consiglio raccomanda una “politica di protezione nazionale”, in cui il governo federale garantisca il diritto di tutti i bambini di vivere in un ambiente sicuro, con appropriati mezzi di enforcement (NdT.: applicazione delle norme).
La Hewlett ha ragione sui sintomi: abbiamo socializzato il valore economico dei bambini, lasciando i costi ai genitori. Gli Stati Uniti nel 1991, così come la Svezia nel 1934, rappresentano una versione incompleta del modello welfarista. Ella ha doppiamente ragione: tutto questo esige un prezzo. Il numero di nuovi nati americani all’interno del matrimonio è stato immobile negli anni ’80, 30% al di sotto della crescita zero. Gli americani, semplicemente, non stanno investendo in più di uno o due  bambini, perché non vale la pena (il tasso di natalità complessivo, è vero, risulta in aumento ma questo è dovuto interamente al grande aumento dei nati fuori dal matrimonio: dai 665.000 del 1980 agli oltre 1.000.000 del 1990; queste nascite sembra siano sussidiate egregiamente dal welfare state).
C’è un’alternativa al modello svedese: la Dr.ssa Hewlett non la menziona; è quella che i coniugi Myrdal liquidarono perché “oltre ogni ragionevolezza” sessant’anni fa. Questa opzione si chiama “società libera”: invece di completare il welfare state estendendo i tentacoli della burocrazia sui nostri bambini, smantelliamo ciò che esiste. L’agenda è semplice, radicale e pragmaticamente anti burocratica:
1. Porre fine alla educazione obbligatoria di Stato, lasciando liberi i genitori (o i tutori legali ) di crescere i bambini;
2. Abolire le leggi sul lavoro minorile: i genitori e i tutori sono i migliori giudici degli interessi e del benessere del bambino, più che qualsiasi combinazione di burocrati di Stato;
3. Smantellare la Sicurezza Sociale, lasciando che la protezione e la sicurezza della vecchiaia vengano fornite, di nuovo, dagli individui e dalle loro famiglie.
Queste azioni restaurerebbero i benefici economici dei bambini, ponendo termine alla contraddizione che giace al centro dell’incompleto welfare state. La maggior parte dei commentatori risponderebbe: “è impossibile! Tali azioni sono inconcepibili nella società moderna industriale”. Data la realtà e la complessità del mondo moderno, direbbero, il caos regnerebbe sovrano se attuassimo tale programma reazionario.
Risponderei consigliando di guardare ai gruppi sparsi in America, i quali, per casualità storica o miracolo politico, ancora abitano una delle “zone di libertà” che sopravvive al regime.
Un esempio interessante e inaspettato è fornito dagli Amish, che hanno respinto i tentativi dello Stato di insinuarsi nelle loro speciali pratiche educative (precisamente, l’istruzione esclusiva a cura di insegnanti Amish e solo fino alla terza media), che fanno uso di lavoro infantile ed evitano la Sicurezza Sociale (così come il welfare di Stato). Non solo gli Amish sono riusciti a sopravvivere nell’ambiente industriale; essi prosperano. Le loro famiglie contano 3 volte il numero dei membri della famiglia americana media. Di fronte alla competizione leale, le loro fattorie profittano “nei tempi buoni e in quelli cattivi”.
Il loro tasso di risparmio è straordinariamente alto. Le pratiche contadine, dal punto di vista della tutela dell’ambiente, sono esemplari, segnate da una rigorosa amministrazione del suolo, evitando fertilizzanti chimici e artificiali. Durante un periodo di grande calo dei contadini americani, le fattorie Amish si sono allargate, dall’originale base nel sud est della Pennsylvania all’Ohio, Indiana, Iowa, Tennessee, Wisconsin e Minnesota.
È vero: pochi americani sceglierebbero di vivere come gli Amish, se potessero essere liberi di farlo. Di nuovo, nessuno può sapere l’aspetto che l’America assumerà, se i cittadini saranno liberati dalla dittatura burocratica sulle loro famiglie. Dittatura che è iniziata, qui, oltre un secolo fa, con la scuola pubblica obbligatoria.
Non ho dubbi, personalmente: in una società libera, le famiglie sarebbero più forti, le nascite copiose e gli uomini e le donne più felici. Per me, è abbastanza.


Articolo di Allan Carlson su Mises.org
Traduzione di Luigi Pirri