Di seguito la trascrizione del primo incontro della conferenza "Lo sguardo della sofferenza". Relatore: Padre Giuseppe Barzaghi, O.P.
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Devo dire che mi son
sentito veramente a disagio su questo tema: io non sono fatto per il negativo,
sono fatto per il positivo. Dovendo trattare di una cosa negativa come è il
male, dovevo adattarlo a me stesso. Questo vuol dire che, solitamente, anche le
cose debbono adattarsi a noi: l’adattamento è sempre reciproco. Allora l’ho
trasfigurato con questo titolo: “Lo sguardo della sofferenza”. Il problema del
male è un problema più soggettivo che oggettivo: per questo che noi diciamo: “tu
non immagini neanche quello che ha sofferto quella persona lì”. Il male è obiettivo
ma la sua trasfigurazione è nell'anima di chi lo patisce.
Allora dico: per
adattare a me la trattazione del male dico, per non fare
pasticci insomma, bisogna parlare dello sguardo della sofferenza, in cui c’è il richiamo
dell’oggettività dell’essere toccati dal negativo ma questa sofferenza cade
sempre dentro uno sguardo. E quando vi cade, a seconda dello sguardo, cambia
faccia: questo vuol dire “trasfigurare”. Io sono fatto così, ho fatto degli
studi che portano ad esigere questa trasfigurazione, che vuol dire vedere il
positivo nel negativo.
I più grandi geni
dell’umanità, i maestri dello Spirito, hanno l’abilità di vedere il positivo
nel negativo: hanno una tale abilità di essere capaci, addirittura, di vedere il negativo nel
positivo. Eh… questa è grossa! Vengo da Bologna ma la matrice è briantea
(dall’accento si capisce). Saper vedere anche il negativo nel positivo non vuol
dire disprezzare o banalizzare il positivo: significa rieditare il suo
speculare, il positivo nel negativo; vuol dire il “negativo non è mai assoluto.
È incrostato in un positivo”.
Bisogna sapersi adattare a questa circolarità
presente tra bene e male e questa facoltà sta tutta nello sguardo; proprio per
questo non dobbiamo pensare che le riflessioni da sviluppare in questi incontri
siano semplicemente delle riflessioni di carattere tecnico – teologico o
filosofico; c’è anche questo ma non c’è mai filosofia slegata dall’intuizione
spirituale. Il grande filosofo, anche quello sistematico, è ispirato:
trascinato via. Altrimenti trattasi di copione puro.
Dicevo: le tematiche da
affrontare hanno un carattere dogmatico, quindi di dottrina e di ragione ma
l’ambiente di questo ragionamento, di questa dottrina è sempre un ambiente di
fuga: bisogna imparare a lasciarsi incantare. Quando siamo incantati, non
possiamo essere tolti dal nostro incantesimo. “Fuga” vuol dire saper mirare con
lo sguardo dove tutto viene contestualizzato pacificamente. “C’è il male!”;
adesso ti faccio vedere che c’è il bene, il male è incastonato nel bene
inamovibile. Questo trascinamento altrove, nel Cristianesimo, si chiama “Fede”.
Adesso vi faccio vedere una cosa bellissima: noi non siamo capaci di vedere le
cose perché distratti in quanto insofferenti, cioè non sofferenti (chi non vuole
soffrire: “Sofferente”: sub = sotto; fero = porto). Chi sopporta è debole o
forte? È lì e sopporta. Quando siamo insofferenti vuol dire che non siamo
ancora messi in quella condizione: non sappiamo cosa vuol dire stare sotto e
portare. Anche quando il Vangelo ci introduce nelle cose più belle i nostri
occhi diventano quelli del Vespertiglione (pipistrello), richiamando Aristotele.
Rispetto ai primi
principi il pipistrello chiude gli occhi; se noi leggiamo in questo modo il
Vangelo non ci accorgiamo di nulla. La visione che si deve avere dello sguardo
della sofferenza è quella del trascinamento, mirando un punto di fuga in cui
tutto viene collocato in una condizione di tranquillità, di pace. Voi conoscete
il ricco epulone? Nell’episodio evangelico, nella redazione di Luca, si mettono
a confronto il povero Lazzaro e il ricco; tutti noi siamo abituati da bambini a
ricordare questo episodio così: “Tu hai avuto i tuoi beni in questa vita e ti
prendi la punizione nell’altra vita, tu hai avuto i tuoi mali in questa vita e
ti prendi la gioia nell’altra”.
Ma qui c’è scritta un’altra cosa: avete visto i
film di don Camillo? Quando Peppone si arrabbia perché il figlio maggiore non
studia e scappa dal collegio, don Camillo va a prenderlo, lo porta a casa e dice: “è inutile che lo porti a studiare, è cresciuto nei campi,
lascialo stare”. C’è una scena, nella classe, dove è tornato il figlio di
Peppone, emblematica: tutti gli altri bambini stanno scrivendo e questo bambino
guarda l’uccellino fuori dalla finestra. Adesso io vi dico: mettetevi nella testa
che il vostro sguardo deve essere come quello di quel bambino lì. Guarda cosa c’è scritto nel Vangelo (Lc 16, 22): “Factum est autem ut moreretur mendicus et portaretur ab angelis in sinum
Abrahae mortuus est autem et dives et sepultus est in inferno”.
L’ho
letta in latino perché se l’avessi letta in italiano, con la velocità con cui
si legge solitamente, chi avrebbe fatto attenzione? C’è scritto così: “Avvenne
che il povero morì e fu portato dagli angeli di Dio nel seno di Abramo; morì
anche il ricco e fu sepolto”. Se il Vangelo usa quelle parole lì, non una di
più, non una di meno c’è un motivo: se trattasi di ispirazione, il Signore ha voluto così.
Che differenza c’è quindi?
La differenza che c’è tra uno che ha sempre pensato: “si mangia, si beve, si dorme e quando si muore ti mettono sotto terra”.
L’altro, che viveva sogni di speranza, fu portato dagli angeli, non da un
angelo, nel seno di Abramo. Allora, capite che c’è una bella differenza tra
vedere questa parabola incentrata sul fatto che uno è cattivo, l’altro è
buono, uno è castigato, l’altro no, etc. e questa visione. Ma perché
dovete leggerlo così?
Questo è un versetto, il 22, è decisivo: il povero Lazzaro
è morto. Oh, si sono mossi gli angeli di Dio, le creature angeliche! Queste,
come numero, sono superiore a tutte le creature sensibili. Si mossero gli
angeli di Dio, per uno solo! Quando si dice “Il Signore degli eserciti” puoi mica
dire “il Signore delle guardie svizzere”, no? Il Signore degli eserciti delle
schiere celesti: arrivano loro e il povero viene trascinato via. Se si
considerano le cose da questo punto di vista possiamo domandarci: “Esistono gli
angeli? Si muovono tutti?” Che esistano gli angeli posso dimostrarlo, che si muovano
proprio tutti no. Ma sai qual è la differenza? Quando io vedo un malato, non
sono contento ma so che vi è qualcuno più forte di me che lo aiuta, minimo un
angelo custode. Mettetevi al suo posto: cosa sperereste? Cosa occorre? Saperlo
sentire come è stato sentito da chi l’ha scritto e da chi l’ha ispirato. E
quando senti così sei portato in fuga anche tu. Chi ti prende? Se sei
trascinato, la forza è di colui che ti trascina. E se ti trascina Dio chi ti
prende? Nessuno! Non si chiama “fuga” lo scappare da una responsabilità: si
dice “andare in fuga” la capacità di traguardare, trans – guardare. I corridori
in fuga di cosa hanno paura? Non si voltano neanche indietro! Il finisseur cosa fa? A cinquantacinque
all’ora guarda avanti. Trans – guardare vuol dire guardare oltre, al di là
dello sguardo. Con la fede si vede qualcosa? Vado al di là dello sguardo.
Questo trascinamento è il modo con il quale vanno contestualizzate queste
esperienze di male, di sofferenza: c’è Qualcuno che mi sostiene, io sto sotto e
porto. È così importante la faccenda che addirittura Gesù ha bisogno del Suo
conforto. Siamo sempre nel Vangelo di Luca: è un Vangelo di sguardi. Bisogna
sempre leggere i frammenti: tanti sono quelli che possono ricordare a memoria
il riassunto, i capitoli, etc. il problema sono i frammenti, perché i
frammenti li becchi così: sei lì a ripetere e non te ne accorgi. Qui c’è un
frammento di Gesù nell’orto degli ulivi: in questa situazione c’è la preghiera
di Gesù rivolta al Padre nella quale dice: “se è possibile passi da me questo
calice, tuttavia sia fatta non la mia ma la Tua Volontà. Gli apparve, allora,
un angelo dal cielo, che lo confortava”. Confortans eum: si vedono gli angeli? Perché
arriva? Perché nelle altre redazioni non si vedono? Perché è bello pensare
così; Dio ha voluto così. “Et factus in
agonìa prolixis orabat”. “Factus in agonia”: ecco, tra poco non respira
più. Guardate che è nell’orto degli ulivi, non è ancora in agonia; entrato nel
suo “agone” (agone non è accrescitivo di ago: agone vuol dire "combattimento".
Quindi: entrato nel suo combattimento). Quelli che entrano nel combattimento
come si chiameranno? Agonisti: l’atleta è il lottatore; adesso so che devo
sopportare, devo essere forte, perché entro nella lotta. Chi era l’atleta del
Signore? San Paolo (“Io, l’atleta del Signore!”). Certo che gli manca il fiato,
è entrato nell’agone! Tutti i più grandi scalatori sono senza fiato. E anche
quando si fermano ansimano. C’è questa idea per cui entrare nell’agone
significa effettivamente entrare in qualcosa che ti fa mancare il fiato: il
sofferente, il sopportatore è un atleta.
Questo modo di inquadrare l’esperienza
della sofferenza dovrà avere anche dei momenti di riflessione, di
giustificazione razionale: se si abbandona questo sguardo qua, però, tutto
diventa insipido. Nelle questioni in cui si gioca, la saggezza vale di più in
colpo di genio che un sillogismo in barbara. Il colpo di genio ce lo abbiamo
quando siamo ispirati. Di solito si dice: “il male è una grande obiezione”.
Parli della bellezza di tutte le cose e c’è sempre lo spiritello demoniaco
dietro:“Guarda la bellezza dei fiori!”; “marciranno tutti”. Endre Ady, grande poeta decadentista ungherese: “amo le
rose malate, amo la vita che se ne va, le donne sfiorite e vogliose”. Cosa ci
vuole per vedere la vita così? Ci vuole l’ispirazione del poeta. Anche i
momenti più banali, dentro lo sguardo della Fede, diventano poesia eccelsa. Si
intendono con lo sguardo che è l’ultimo: ti resta solo chiedere di potere
contemplare cosa si stanno dicendo con lo sguardo ultimo. Perché? Perché sono
in fuga. Tu non c’entri; ma loro c’entrano. Bisogna che recuperiamo sguardo della Fede
che può attutire qualsiasi strepito.
Un altro esempio. Quando facevo il liceo: occupazione un giorno sì un giorno
no. Oh, ci si accorgeva che nelle classi c’erano dei geni! Non sto facendo la
litanìa della bellezza della contestazione, era una cavolata! Oh, però, guarda
qua: c’erano dei geni! Non era mica secchione, era uno scemo come te. Va lì e
fa una lezione su Beethoven: studiava il violoncello. E quell’altro? Oh, sa
tutto sull’uomo di Neanderthal e fa lui la lezione. Questo era il positivino
nel negativone. C’erano le assemblee: il preside doveva prenotare un teatro
perché l’aula magna non c’era, etc. Allora cominciavano i rivoluzionari col
megafono: “questo è un momento di lotta perché…”, ad un certo punto uno di
questi sviene. Il preside, contestato da tutti, viene giù dall’androne; tutti
lì che urlano. Si toglie la giacca, gli tira su la testa: che figura di merda
che abbiam fatto! Quello che era contestato è venuto giù, si è tolto la giacca
e lo ha salvato. Capisci cosa vuol dire? È sempre una questione di fuga, di
trascinamento.
Questo era solo un esempio. Ma nelle cose che riguardano lo
spirito bisogna avere questo occhio attento al punto che fonda tutto: questo
non è mai frutto di ragionamento; perché, in questo caso, sarebbe una
conseguenza. Una conseguenza ha bisogno di un antecedente che lo fonda: è
l’antecedente che non consegue a nessuno. E chi lo pone? L’intensità dello
sguardo: tutto cade dentro uno sguardo intenso; è fatto perché tutto gli cada
dentro. Se uno sguardo non fosse fatto per questo sarebbe uno sguardo vuoto,
cioè assente; quando non è assente, è presente (pre esse = tutto davanti a sé,
tutto nello sguardo). Il problema del male, quindi, nella sua più profonda e
intensa trattazione è solo e soltanto una questione di sguardo. Prima vi ho
detto che i grandi spiriti sono questi che sanno vedere il positivo nel
negativo e viceversa. Il giusto: quando una cosa è “giusta” non è piatta, è
adeguata. Solo che per riuscire a vederle adeguate, bisogna riuscire a vederle.
Guarda: tutto è adeguato. “Eh ma io non riesco a vederlo”. Questo è il colpo di
genio! Va bene così. Va bene così. Questo me lo ha insegnato mio papà. Avreste
preferito Fichte no?
Il compito del
saggio che tende all’infinito perché l’io trascendentale pone in sé un io
empirico che si contrappone a un non io
empirico e l’io empirico tende a paragonarsi all’io trascendentale e non
potendo va all’infinito, quindi non avrà mai la verità ma la ricerca della
verità: Lessing. Invece mio papà mi ha insegnato questa cosa qua: se tu vai
nell’antologia della memoria, trovi le citazioni più belle. Vi ricordate
l’episodio di Vermicino? Alfredino Rampi, caduto nel pozzo artesiano? Padre
Barzaghi, in quell’anno, era matricola di filosofia e le matricole ne sanno parecchio di Platone, di Aristotele e anche di Kant. Lì, naturalmente, tutte le obiezioni
le tiravo fuori. Mio papà mi guarda e mi fa: “non c’è nulla da capire”. A cosa
serve l’obiezione?
Supposto che sia solida, varrebbe il 50%. E sul 50% cosa
fai? Scegli ciò che maggiormente affascina. Chissà quanti episodi avete dentro
alla memoria. Non chiamiamola “enciclopedia”… quella è roba illuminista. Non
erano capaci di sistematizzare e allora hanno ordinato tutto in sequenza. “Eh,
l’illuminismo, gran ragionamento…”. Sì, ordine alfabetico! Prima c’erano le
cattedrali speculative, tu capivi perché un determinato tema veniva prima di un
altro. E adesso? La P viene prima della Q. La Y viene prima della V? e la X?
Insomma, guardiamo bene: le cose dense stanno nello sguardo. L’obiezione del
male, che è fastidiosa, come si risponde? Obiectum, te lo metto davanti alla
faccia. Ti giri? Te lo rimetto. Con la ragione tutti siamo capaci ad obiettare.
Per fare obiezione basta “Mah”, “Buh”, “eh”… il problema è trovare la
soluzione.
La soluzione non è:
“eh!”, “Uh!”, etc. Queste cose qui sono al giardino zoologico. Se l’obiezione è
fastidiosa, ce l’hai sempre davanti alla faccia, cosa bisogna fare? Diventare
compagnia lieta all’obiezione fastidiosa. Ricordare: diventare compagnia lieta
all’obiezione fastidiosa. Vuol dire che la compagnia è sempre lì ma non si
sovrappone. Tutti vedono l’obiezione ma non vedono mica la compagnia lieta. La
Fede ci trasfigura nello sguardo così da diventare compagnia lieta all’obiezione
fastidiosa. La compagnia lieta, con la sua letizia, ti dice: “guarda là”, ti
porta nella fuga dello sguardo dell’anima. Di fronte ad un’obiezione fastidiosa
vale più questo discorso che la controbiezione all’obiezione ancora più
arcigna: troveremmo due persone che disputano sul malato. Bisogna uscire da
questa ottica qua.
La riflessione sul tema
del male, la teodicea di Leibniz, sono interessantissime quando si fanno
nell’astrazione del cesto delle nuvole di Aristofane. Questi aveva messo
Socrate, in una sua commedia, dentro una cesta, mentre guardava le nuvole.
Perché? Perché Anassimene aveva detto che l’intelligenza infinita era aria;
l’aria infinita è il cielo. I discorsi accademici sono dentro questa cesta ed è
giusto farli, perché se non fai sapere cosa metti dentro la cesta non ti
pagano; il problema è uscire dalla commedia della cesta e delle nuvole, vuol
dire andare a toccare efficacemente lo spirito filosofico che c’è dentro
ciascuno. Ma per farlo occorre l’ispirazione.
Perché uno si iscrive a
matematica? Il piacere matematico è una spiegazione non matematica. La stessa
cosa vale nella filosofia. Quindi, di fronte all’obiezione del male dobbiamo
trasformarci in compagnia lieta, che può essere taciturna ma il male non può
niente. Attenti: io non vivo in ospedale come i dottori o le infermiere. Però,
sai, se uno vive in un convento, dove prima eravamo 50, 45 poi 40, 35… capisci
che lì tu puoi trovarti di fronte uno che ha novant’anni e uno di venticinque:
muore quello di venticinque. Si è sempre immersi in questa cosa: è come se ci
si abituasse, si crea l’habitus (che è una qualità buona) per cui si cominciano
a intendere queste cose dal punto di vista claustrale, dell’universo chiuso,
perché non si può andare al di là dell’universo. Il chiostro è l’universo: c’è
dentro tutto, se trovi qualcosa al di là niente altro sarà che universo. Solo
che se tu cominci a stringere, stringere, e stringere diventa un’aiuola: per
Kant è quell'aiuola che ci fa tanto feroci. C’è tutto, anche questo bellissimo
sentimento.
Certe esperienze sono molto
belle. Questo frate che stava morendo intona il “Salve Regina” con le labbra.
L’assoluto presente è tutto qui: tutto è visto nello sguardo in una concezione
speculare, di specchio; tu vai da un’altra parte, lo specchio ti riporta
indietro con tutto. “Ci sarà l’aldilà?”, guarda, è l’al di lì: è presente e non
lo vedi. Si specula tutto, si riflette tutto. Dentro lo specchio guardo me
stesso. In questa riflessione totale propria dello sguardo speculativo della
fede si matura il senso del positivo, del negativo e del negativo nel positivo.
Adesso lo devo dire: il
più grande genio (guarda, saremmo in due tre ad essere d’accordo, non mi
interessa) musicale: Johann Sebastian Bach. Lui riusciva a vedere queste cose
(positivo nel negativo, etc.). Anche se ha delle cose estremamente liete e
gradevoli, tac! ti fa una rimembranza di morte; se c’è una cosa luttuosa e
sgradevole ti mette dentro il sapore della vita, ti fa vedere il positivo nel
negativo e il negativo nel positivo.
Dicevo prima, col dottor Spinetti, ho
sentito l’ultima incisione di Pollini, il primo libro del clavicembalo ben
temperato. Il primo brano, il primo preludio è in do maggiore, il giro più
semplice, tonalità più lieta, naturale, lo conoscete? Uno quando ha musicato
l’Ave Maria ha preso il clavicembalo ben temperato di Bach. Se togli Bach togli
il fondamento. Do maggiore, semplice, la tonalità più lieta tutte le note
bianche, tonalità più lieta. Il grande Glenn Gould diceva: “se volete farmi
un’offesa, dite che somiglio caratterialmente alla tonalità di Do maggiore”. Ma
in uno sguardo teologico, anzi, teologale come quello di Bach, diventa una
tonalità magnifica, almeno quel brano lì. Il cantabile è solo la nota bassa.
Alla fine, quando sembra che la tonaltià presagisca l’ascensione. La tonalità
minore, invece, accompagna lo stato di mestizia. Avete mai sentito la fuga in
sol minore di Bach? Sol minore è una roba da funerale. Sì, ascoltala. È il
girotondo dei bambini! Ha ribaltato la faccenda: ti ha fatto vedere il positivo
nel negativo, prima il negativo nel positivo. Questo qui è uno sguardo in fuga.
Padre Giuseppe Barzaghi
spettacolare... padre giuseppe non stanca mai anche a rileggerlo mille volte... come fa? mistero
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