venerdì 28 giugno 2013

La guerra dello Stato alla famiglia

[Da un paper scritto e dato alle stampe, successivamente, nel 1991].
Il destino delle famiglie e dei bambini Svedesi mostra la verità dell'osservazione di Ludwig von Mises, per cui "nessun compromesso è possibile tra il capitalismo e il socialismo". Qui spiegherò come la crescita del Welfare State possa essere vista come il trasferimento della funzione di "dipendenza" dalle famiglie ai funzionari pubblici. Il processo, in Svezia, iniziò nel diciannovesimo secolo, attraverso la socializzazione del tempo economico dei bambini grazie all'obbligo di frequenza scolastica, alle leggi sul lavoro minorile e alle pensioni di vecchiaia statali. Questi cambiamenti incentivarono scarsa o nulla natalità. Negli anni '30 del '900, i socialdemocratici Gunnar e Alva Myrdal usarono la conseguente "crisi demografica" per sostenere la completa socializzazione dell'allevamento della prole. La loro "politica familiare", implementata nei 40 anni successivi, distrusse virtualmente l'autonomia familiare Svedese, sostituendola con una "Società Clientelare" (Client Society) nella quale i cittadini sono assistiti continuamente dai funzionari pubblici. Mentre la Svezia sta provando ad uscire dalla trappola welfaristica, i vecchi argomenti favorevoli alla socializzazione dei bambini stanno prendendo piede negli Stati Uniti.
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Nel suo libretto “Bureaucracy”, Ludwig von Mises afferma: il socialismo moderno “cura l’individuo dall’utero alla tomba”, mentre “i bambini e gli adolescenti sono integrati saldamente negli apparati di controllo dello Stato”.
Altrove, contrappone il “capitalismo” e “socialismo”, per concludere:
non c’è compromesso possibile fra questi due sistemi. Contrariamente a quanto pensa erroneamente il popolo, non c’è via di mezzo, non c’è un terzo sistema possibile come modello di ordine sociale permanente”.
Le mie osservazioni mettono a fuoco la validità della dichiarazione, attraverso il destino delle famiglia e dei bambini nella "terza via" svedese.
In Svezia, troviamo un caso classico di manipolazione burocratica atta a distruggere il rivale principale dello Stato quale centro di lealtà: la famiglia. Osservando questa rivalità, è importante capire che un livello base di “dipendenza” è una costante in tutte le società. In ogni comunità umana, ci sono infanti e bambini, anziani, individui con handicap severi ed altri che sono gravemente ammalati. Costoro non possono prendersi cura delle proprie vite. Senza aiuti, morirebbero. Ogni società deve caricarsi della cura spettante a queste persone.
Nelle società libere, l’istituzione naturale della famiglia (completata e sostenuta dalle comunità locali e dalle organizzazioni volontarie) fornisce la protezione e la cura di cui queste persone hanno bisogno. Effettivamente, è nella famiglia (e solo nella famiglia) che il principio del socialismo funziona: da ognuno secondo le sue abilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni.
La crescita imponente del welfare state può essere vista come il trasferimento costante della funzione di “dipendenza” dalla famiglia allo Stato, dalle persone legate da vincoli di sangue, dall’unione matrimoniale o dall’adozione alle persone vincolate dall’impegno pubblico. Il processo è iniziato in Svezia nel secolo scorso, con progetti burocratici di smantellamento dei legami fra i genitori e i loro bambini.
Seguendo lo schema classico, la prima imposizione data 1840, con il passaggio ad una legge che decreta l’obbligo di istruzione scolastica: mentre veniva giustificata come “misura per migliorare la conoscenza ed il benessere generale”, la socializzazione dei bambini costituì la profonda forza motrice, basata sull’assunto per cui i funzionari di Stato (burocrati svedesi) conoscono le necessità e i bisogni dei bimbi meglio dei genitori stessi, i quali non erano ritenuti in grado di proteggere i loro figli dallo sfruttamento.
Il passo seguente, nel 1912, fu la legislazione mirata a vietare il lavoro dei bambini nelle fabbriche e, in una certa misura, sui poderi. Ancora, il presupposto implicito era costituito dalla conoscenza migliore, da parte dei funzionari dell’assistenza sociale, delle necessità dei bambini.
Il passo finale arrivò quasi contemporaneamente: il governo svedese introdusse un programma pensionistico e di assistenza alla vecchiaia che diventò, rapidamente, universale. La motivazione di fondo, qui, consisteva nella volontà di socializzare un’altra funzione di dipendenza: la dipendenza degli anziani e dei deboli dagli adulti. Da sempre, la cura degli anziani riguardava la famiglia. Da quel momento in poi, divenne preoccupazione dello Stato. Prendendo tutte queste riforme assieme, l’effetto netto, evidentemente, è la socializzazione del valore economico dei bambini. L’economia naturale della famiglia ed il valore apportato dai bambini (collaborando all’impresa familiare e fungendo da "assicurazione" per l’anziano) venne estirpata.
I genitori subirono una crescita dei costi per l'educazione e il sostentamento dei figli ma il beneficio economico che, eventualmente, avrebbero rappresentato, fu forzosamente destinato alla “società”, cioè allo Stato.
Il prevedibile risultato di questo cambiamento (come un economista della “Gary Becker School” direbbe) comporterebbe una diminuzione della domanda di bambini: questo è avvenuto in Svezia. Cominciando dalla fine del 1800, la fertilità svedese è entrata in caduta libera per arrivare, al 1935, all’indice di natalità più basso del mondo, sotto il livello dello “sviluppo zero”, in cui una generazione riesce appena a sostituirsi. Per la teoria standard della transizione demografica, questo calo costituiva una conseguenza necessaria ed inevitabile della industrializzazione moderna: l’economia capitalista interromperebbe i rapporti tradizionali familiari. Mentre è vero che la struttura tradizionale della famiglia affronta un nuovo genere di sforzo nella società industriale, recenti ricerche suggeriscono che la più grande sfida alla famiglia, di fatto, è derivata dallo sviluppo dello Stato.
Guardando all’evidenza empirica plurinazionale, il demografo Ryder Norman dell’università di Princeton, addebita il declino della fertilità alla scolarizzazione di massa.
“L’educazione delle giovani generazioni è un’ influenza sovversiva” afferma.
Le organizzazioni politiche, come le organizzazioni economiche, richiedono devozione e tentano di neutralizzare il particolarismo della famiglia. C’è una lotta fra la famiglia e lo Stato per le menti dei giovani”: l’obbligo scolastico imposto dallo Stato è “lo strumento principale per la formazione della cittadinanza, un appello diretto ai bambini sopra le teste dei loro genitori”.
Confermando la validità universale dell’esempio svedese, Ryder sostiene che,  mentre l’educazione obbligatoria  accresce i "costi" di educazione e mantenimento della prole stessa, i divieti al lavoro riducono ulteriormente il valore economico dei piccoli. Inoltre, un sistema di previdenza sociale taglia i legami naturali fra le generazioni, lasciando lo Stato come luogo di lealtà assoluta.
Mentre il sistema nazionale familiare può riorganizzarsi, per un certo tempo, intorno all’unità del nucleo “marito-moglie” per la riproduzione, persino l’indipendenza di base tende a dissolversi.
Il risultato finale dell’intervento dello Stato, afferma Ryder, è una progressiva diminuzione della fertilità, con individui destinati a restare soli, in un rapporto di dipendenza con lo Stato.
Le contraddizioni inerenti a questo metodo di organizzazione sociale sono scoppiate in Svezia all’inizio degli anni '30. Con il tasso di natalità che cadde sotto il livello dello sviluppo zero, i conservatori svedesi iniziarono una frenetica contromossa alla “minaccia di spopolamento”, con successiva scomparsa dei bambini svedesi. Per queste voci, il problema era costituito dalla dislocazione spirituale o dal declino del cristianesimo, dall’aumento del materialismo o dall’egoismo personale. Nessuno focalizzò il problema adeguatamente, nemmeno nello spettro politico destrorso, addebitandolo alla legislazione educativa e sociale dei novant’anni scorsi. Avendo la “crisi della popolazione” raggiunto il livello di guardia in Svezia, l’occasione era matura per mettere in atto demagogia e sfruttamenti.
[...]
In questa situazione, sguazzarono due giovani scienziati sociali svedesi, Gunnar Myrdal e sua moglie, Alva Myrdal. Prima di entrare nel merito del loro uso e abuso della questione, permettetemi di dire qualcosa a proposito del loro background e delle influenze che esercitarono sul loro lavoro.
Il paternalismo burocratico ha una lunga storia in Svezia, ancorato nell’apparato dirigista costruito dai Re Vasa agli inizi del sedicesimo secolo e promosso attraverso la distruzione dell’autonomia regionale quale risposta alle rivolta capitanata da Nils Dacke degli anni ’40 del 1500. Eppure i Myrdals rappresentarono qualcosa di nuovo, molto “moderno”. Erano scienziati sociali – intellettuali accademici – intenti a sostenere un nuovo tipo di attivismo statale. Come spiegò Alva stessa: “La politica è [ora]… stata portata sotto il controllo della logica e della conoscenza tecnica: è diventata, sostanzialmente, ingegneria sociale costruttivista”.
Secondariamente, sebbene la ripetizione del mantra svedese (il “modello svedese”) ammorbi l’America, è importante notare quanto del nuovo Welfare State svedese poggiò sulla sperimentazione americana. Entrambi i Myrdals spesero gli anni accademici 1929 e 1930, i mesi calanti della “Era Progressista”, viaggiando negli Stati Uniti, attraverso sponsorizzazioni sostenute dalla Laura Spelman Rockfeller Foundation. Durante questo periodo, Alva Myrdal cadde sotto l’influenza della “Scuola sociologica di Chicago”. William Ogburn, in particolare, le trasmise la visione dello Stato e della scuola quali fenomeni destinati alla crescita a scapito della famiglia; la famiglia si sarebbe trovata di fronte ad una “perdita di funzioni”, essendosi tirata fuori dalla storica presenza quale faro sociale.
Alva passò, altresì, diverso tempo al Child Development Institute of Columbia University e visitò istituti di accoglienza prescolastica sperimentali della Rockefeller Foundation, esempi di “genitorialità sociale” che la impressionarono fortemente.
Per parte sua, i lavori di Gunnar Myrdal alla Columbia e all’Università di Chicago lo resero consapevole della tremenda potenzialità politica insita nel dibattito svedese sullo “spopolamento”.
In un importante articolo del 1932, “Social Policy’s Dilemma” (Il Dilemma della Politica Sociale, NdT), per il giornale d’avanguardia svedese, Spektrum, Gunnar Myrdal sottolineò l’importanza dello strumento politico: tracciò il compromesso in Europa, prima del 1914, da un “socialismo a sfondo liberale” a un “liberalismo a sfondo socialista”; sotto questo regime, sostenne Gunnar, il liberalismo del diciannovesimo secolo abbandonò il pessimismo Malthusiano e il “dogmatismo” di libero mercato, abbracciando la necessità di riforme atte a proteggere i lavoratori; mentre i socialisti cedettero sugli scopi della rivoluzioni e sulla necessità di massiccia redistribuzione della proprietà privata, esprimendo soddisfazione nella gradualità di aiuti verso la classe lavoratrice.
La Guerra Mondiale, tuttavia, distrusse questo compromesso. Myrdal dichiarò il liberalismo classico “morto” e i suoi partigiani dispersi. Sostenne la necessità di re-radicalizzazione dei movimenti operai e cercò di sviluppare un nuovo tipo di politica sociale. Sotto il vecchio compromesso, secondo Myrdal, le politiche erano orientate dai sintomi, attraverso gli aiuti ai poveri o agli ammalati; la nuova politica sociale doveva prevenire tutto questo. Gli scienziati sociali, utilizzando le moderne tecniche di ricerca, avevano il potere di usare lo Stato per prevenire l’emergere di patologie sociale. Questa politica preventiva, quando basata su premesse antropocentriche valoriali e sulla razionalità scientifica, avrebbero condotto al “matrimonio naturale” della tecnica corretta con la soluzione politica radicale. Myrdal si riferì alla crisi svedese quale opportunità di analisi sociologica razionale al fine di produrre idee effettive e radicali per imprimere, attraverso lo Stato, il cambiamento.
I Myrdals concretizzarono questo programma nel loro best seller del 1934, Crisis in the population question, un volume brillantemente argomentato che, sostanzialmente, trasformò la Svezia. Mentre i conservatori svedesi continuavano ad agitarsi sulle questioni sessuali, i Myrdals puntarono direttamente alle contraddizioni create da un incompleto welfare state. Le azioni pubbliche precedenti, quali l’oblio scolastico, il divieto lavorativo infantile e le pensioni di Stato, ammisero i coniugi, strapparono via il valore dei bambini alle famiglie. Ma i costi rimasero a casa. Di conseguenza, le persone che contribuivano alla sopravvivenza nazionale attraverso la filiazione, furono spinte nella povertà, in abitazioni scadenti, costretta a nutrizione di bassa qualità e limitate opportunità ricreative. Una scelta volontaria tra la povertà con figli o uno standard di vita migliore senza di essi: questo era il dilemma. Giovani adulti furono forzati a supportare i pensionati e i bisognosi attraverso il sistema welfaristico statale e, altresì, i bambini stessi. Sotto questo carico pesantissimo, scelsero di ridurre il numero di neonati; questo era l’unico fattore che potevano influenzare. Il risultato, per la Svezia, fu la de popolazione e lo spettro dell’estinzione nazionale.
Secondo i Myrdals, c’erano solo due alternative. La prima – lo smantellamento dell’istruzione statale, delle leggi sul lavoro e delle pensioni di vecchiaia al fine di restaurare l’autonomia familiare – non “valeva la pena” fosse discussa. L’altra, l’unica alternativa possibile, era il completamento del Welfare State e la rimozione dei disincentivi alla filiazione attraverso la socializzazione dei costi diretti nella nascita e nel mantenimento. Il vero argomento suonava così: al fine di risolvere i problemi causati, in larga parte, dagli interventi statali precedenti, lo Stato deve ora intervenire con maggiore vigore completando l’opera.
Questo comportava  l’adesione a un nuovo tipo di welfarismo:
“riguarda una politica sociale preventiva, guidata strettamente dallo scopo di aumentare la qualità del materiale umano e, allo stesso tempo, portare a compimento politiche di redistribuzione radicale socializzando i costi di mantenimento e allevamento della prole”.
La burocrazia statale non aveva mai goduto di tale mandato. Dall’etimologia stessa della parola, una politica “preventiva”  riguarda l’aiuto, lo scrutinio e il controllo delle famiglie. Non possiamo sapere con certezza dove il problema si verificherà, quindi, misure universali di burocratismo devono essere implementate al fine di rendere la prevenzione realtà.
Sottolineando questa necessità, i Myrdals conclusero:
“la questione demografica , quindi, viene trasformata nel più forte argomento per una pesante e radicale riforma socialista della società”.
L’alternativa, a detta loro, era l’estinzione nazionale.
Il loro programma includeva indennità di Stato per il vestiario dei bambini, un piano di assicurazione universale, il diritto all’asilo nido, campi estivi statali per bambini, pasti e colazioni scolastiche pubbliche, acquisti immobiliari incentivati, bonus per i nuovi nati al fine di coprire i costi di nascita indiretti, prestiti matrimoniali, espansioni della maternità retribuita, servizi ostetrici, pianificazione economica e via dicendo. Il loro obiettivo era, in definitiva, la socializzazione del consumo, fornendo alle famiglie un set di servizi razionalmente determinato, gestito da funzionari pubblici e finanziato attraverso l’imposizione fiscale sul resto della popolazione.
I critici del programma suddetto ricevevano sempre la dura risposta: “la piccola famiglia moderna è… patologica” dicevano i Myrdal.
“I vecchi ideali devono morire con le generazioni che li promuovevano”.
Appelli alla libertà e all’autonomia familiare suscitavano risposte altrettanto pungenti. I Myrdals sostennero che il “falso desiderio individualista” dei genitori per la “libertà” di crescere i propri bambini aveva una malsana origine: “… molti degli sforzi profusi per difendere la ‘libertà individuale’ e la ‘responsabilità per la propria famiglia’, sono basati su una disposizione sadica di estensione di questa ‘libertà’ al diritto incontrollato e illimitato di dominare gli altri”.
Al fine di crescere i bambini idoneamente per la partecipazione in un mondo sociale cooperativo “dobbiamo liberare i bambini da loro stessi” indirizzandoli agli esperti di Stato per la cura e la crescita. L’asilo collettivo di Stato, piuttosto che la patologica famiglia d’origine, era utile al fine di eliminare le classi sociali e costruire una società democratica.
Fra il 1935 e il 1975, l’agenda dei Myrdals guidò, con svariate interruzioni, l’evoluzione del Welfare State svedese. Periodi di attivismo politico e burocratico – dal 1935 al 1938, dal 1944 al 1948 e dal 1965 al 1973 – furono punteggiati dall’ostinata resistenza della popolazione Svedese o da limiti fiscali endogeni che ritardavano l’implementazione compiuta. Eppure, alla fine del processo, la maggior parte dell’agenda Myrdal fu portata a termine.
Quali furono i risultati specifici? Con la famiglia esautorata di tutte le funzioni produttive, assicurative e assistenziali (nonché di consumo) i risultati dovrebbero essere ovvii: il tasso di nuzialità cadde al minimo storico tra le moderne nazioni mentre la percentuale di adulti in solitudine crebbe. Nella centrale Stoccolma, per esempio, due terzi della popolazione viveva in appartamenti per single, alla metà degli anni ’80. Con i costi e benefici degli infanti pienamente socializzati e con i “proventi” naturali economici matrimoniali intenzionalmente eliminati per decreto, la filiazione fu separata dal matrimonio: nel 1990, ben oltre la metà dei lattanti nascevano fuori dal matrimonio.
I bambini, altresì, godevano quali “diritti” di un insieme di vantaggi forniti dallo Stato: cure mediche e odontoiatriche; trasporto pubblico a prezzi contenuti; cibi pubblici; educazione pubblica e addirittura “consiglieri per bambini” disponibili a intervenire nel caso i genitori avessero superato i loro limiti. I bambini non avevano più bisogno della famiglia: ora lo Stato faceva da genitore.
Effettivamente, il sociologo dell’Università di Rutgers, David Poponoe, suggerì che il termine “welfare state” non rendeva più giustizia a questa forma di totale dipendenza dallo Stato. Invece, egli usò l’etichetta “Client Nation” per descrivere una nazione “in cui i cittadini sono, per lo più, clienti di un largo gruppo di funzionari pubblici che curano i loro interessi”.
In Svezia, i più anziani sono “liberi” dalla potenziale dipendenza sui bambini cresciuti; i neonati, i bambini e i teenagers sono “liberi” dalla dipendenza genitoriale; gli adulti sono “liberi” da qualsiasi significativo impegno sia verso i loro genitori sia verso i bambini e le donne e gli uomini sono “liberi” da qualsivoglia reciproca promessa una volta inclusa nel matrimonio. Questa “libertà” è stata conquistata in cambio di una generale, comune dipendenza dallo Stato e la quasi completa burocratizzazione di quella che, una volta, era la vita familiare. Von Mises aveva ragione: non c’è nessuna “via di mezzo”; piuttosto, la Svezia rappresenta una versione completa  e quindi più oppressiva dell’ordine domestico socialista, sorpassando addirittura l’organizzazione sovietica. Ma il moderno Welfare State svedese contiene le sue contraddizioni interne: i problemi stanno ora venendo al pettine.
Per cominciare, la “contraddizione demografica” non è così facilmente superata. Nell’ordine democratico, coloro che controllano il maggior numero di voti ottengono grandi guadagni. Ed anche in Svezia gli anziani votano, i bambini no. Mentre la “politica familiare” Svedese è stata efficace nel distruggere la famiglia quale entità indipendente, non ha avuto successo nell’arrestare il flusso netto di programmi statali e reddito dai giovani verso gli anziani.
Secondariamente, il client state non potrà mai fornire tutta l’assistenza sociale necessaria, perché tutto questo sarebbe troppo costoso. Eppure, allo stesso tempo, le famiglie, nel welfare state, sono penalizzate quando tentano di provvedere da sé ai loro bisogni, perché, così facendo, perdono i vantaggi dell’assistenza pubblica; sono premiate con le cure di Stato solo quando terminano la loro opera sociale. Il funzionario di Stato danese Bent Andersen spiegò il problema così:
“Il welfare state razionale ha una contraddizione interna: se intende compiere le sue funzioni, i cittadini devono astenersi dallo sfruttare pienamente i suoi servizi – cioè, devono comportarsi irrazionalmente, motivati da controlli sociali informali i quali, tuttavia, tendono a scomparire con la crescita del welfare state”.
Questa contraddizione è stata la forza motrice delle recenti ribellioni contro il moderno Client State, una ribellione partita (nella Scandinavia) in Danimarca e Norvegia, attraverso il successo elettorale dei partiti progressisti anti statalisti e si è ora diffusa in Svezia. Proprio lo scorso mese, i socialdemocratici svedesi hanno subito una pesante sconfitta politica, perdendo potere nelle elezioni nazionali a favore di una coalizione di centrodestra, tenuta insieme dalla promessa comune di tagliare il welfare state. Particolarmente sorprendente è stata l’emersione di due nuovi partiti, che hanno ottenuto seggi nel Parlamento Svedese per la prima volta.
Il primo di questi – i Cristiani Democratici – fece del triste stato della famiglia svedese il punto centrale della sua piattaforma. Promuovevano una diminuzione dell’interferenza burocratica nella vita familiare e la fine agli incentivi di Stato che incoraggiano nascite al di fuori del vincolo matrimoniale e scoraggiano la cura genitoriale dei bambini. L’altro nuovo partito, “Nuova Democrazia”, combina temi libertari di pesanti riduzioni di imposte e tasse, benefits di Stato e fine del foreign aid (NdT.: aiuti esteri) con misure diverse per frenare l’immigrazione. Insieme, formano l’ago della bilancia del potere parlamentare. Raramente l’eliminazione del welfarismo è stata effettivamente vincente, in qualsiasi nazione moderna; ma, per la prima volta dagli anni ’30, gli svedesi hanno l’opportunità di recuperare un pizzico di autonomia familiare e libertà personale.
Comunque, sembrerebbe che la “terza via”, il modello svedese, goda di pessima fama, così come il Comunismo, la seconda via, è collassato completamente. Sfortunatamente, il modello vive – e successivamente potrebbe prosperare – qui negli Stati Uniti, dove la logica e gli argomenti dei Myrdals, usati negli anni ’30, sono sul punto di conquistare la nazione.
In un libro del 1991, intitolato “When the Bough Breaks” (quando i rami si spezzano), edito dalla Basic Books (la più influente casa editrice ne conservatrice), l’economista Sylvia Ann Hewlett scrive:
“Nel mondo moderno, non solo i bambini risultano ‘senza valore’ per le loro famiglie, ma comportano esborsi monetari importanti. Stime indicano i costi di crescita e mantenimento da un minimo di 171.000 a un massimo di 265.000 dollari. A fronte di tali spese ‘un bambino fornisce amore, sorrisi e soddisfazione emotiva’ ma nessuna fonte di reddito”.
Continua:
“il che ci porta al dilemma Americano. Noi ci aspettiamo che i genitori spendano somme straordinarie di denaro ed energia nell’educazione dei loro bambini, quando è la società, collettivamente, che raccoglie i frutti di questa opera. I costi sono privati; i benefici sono, sempre più, pubblici… Ad oggi, fidarsi dell’irrazionale incentivo genitoriale all’allevamento della prole è un rischio avventato. È tempo di imparare a dividere i costi e i carichi dell’educazione e della crescita dei nostri bambini. È tempo di prendere responsabilità collettive per le prossime generazioni”.
La Hewlett prosegue nell’impostazione della nuova agenda politica americana, includendo astensioni dal lavoro per maternità/paternità obbligatorie, libero e garantito accesso all’assistenza medica pediatrica, asili e scuole materne di  Stato, “investimenti dell’educazione”, sussidi abitativi sostanziali per le famiglie con bambini e così via.
Vi suona familiare? Dovrebbe: questi erano gli argomenti e l’agenda proposta agli svedesi da Alva e Gunnar Myrdal, nel 1934, seppur tosata della retorica socialista radicale. Tuttavia, questo è un libro che ha condotto il Presidente (ora pensionato) di Proctor and Gamble, Owen Butler, a dichiarare:
“La conclusione è inevitabile. A meno di investire più saggiamente nei nostri bambini oggi, il futuro economico e sociale della nazione è in pericolo”.
Questi sono gli argomenti utilizzati dalla cosiddetta “nuova politica infantile” a Washington.
Allo stesso tempo, “politica sociale preventiva” è diventato il grido di battaglia di altri Americani “per il cambiamento”. Gli argomenti suonano familiari: l’aiuto di Stato nell’infanzia è più efficace dell’aiuto successivo; più aspettiamo e più costoso sarà intervenire; “interventi precoci presentano il problema di tutti gli investimenti per la crescita – i dividendi arrivano dopo”, etc. Tutto suona ragionevole, in un certo senso, ma il risultato finale sarà costituito dalla concretizzazione di un incubo burocratico e dalla virtuale distruzione della famiglia in America.
Nel report di Settembre dello US Advisory Board (Consiglio) sugli abusi infantili, cogliamo il “profumo” dell’ordine americano prossimo. Questo gruppo di consiglieri, designato esclusivamente dalle amministrazioni Bush e Reagan, ha dichiarato l’abuso infantile “emergenza nazionale”, aggiungendo: “nessun altro problema eguaglia la sua forza di esacerbare malattie sociali”. Il senso del report è questo: il governo federale e gli Stati hanno speso troppo tempo nell’investigare sospetti casi di abusi; invece, il governo federale dovrebbe concentrarsi sulla prevenzione. Il Consiglio raccomanda lo sviluppo di un programma federale di “visite familiari” ai nuovi genitori e ai loro figli da parte di competenti funzionari pubblici e degli assistenti sociali, che potrebbero identificare potenziali vittime e carnefici ed aiutarli.
Oltre al “burocrate in ogni casa”, il Consiglio raccomanda una “politica di protezione nazionale”, in cui il governo federale garantisca il diritto di tutti i bambini di vivere in un ambiente sicuro, con appropriati mezzi di enforcement (NdT.: applicazione delle norme).
La Hewlett ha ragione sui sintomi: abbiamo socializzato il valore economico dei bambini, lasciando i costi ai genitori. Gli Stati Uniti nel 1991, così come la Svezia nel 1934, rappresentano una versione incompleta del modello welfarista. Ella ha doppiamente ragione: tutto questo esige un prezzo. Il numero di nuovi nati americani all’interno del matrimonio è stato immobile negli anni ’80, 30% al di sotto della crescita zero. Gli americani, semplicemente, non stanno investendo in più di uno o due  bambini, perché non vale la pena (il tasso di natalità complessivo, è vero, risulta in aumento ma questo è dovuto interamente al grande aumento dei nati fuori dal matrimonio: dai 665.000 del 1980 agli oltre 1.000.000 del 1990; queste nascite sembra siano sussidiate egregiamente dal welfare state).
C’è un’alternativa al modello svedese: la Dr.ssa Hewlett non la menziona; è quella che i coniugi Myrdal liquidarono perché “oltre ogni ragionevolezza” sessant’anni fa. Questa opzione si chiama “società libera”: invece di completare il welfare state estendendo i tentacoli della burocrazia sui nostri bambini, smantelliamo ciò che esiste. L’agenda è semplice, radicale e pragmaticamente anti burocratica:
1. Porre fine alla educazione obbligatoria di Stato, lasciando liberi i genitori (o i tutori legali ) di crescere i bambini;
2. Abolire le leggi sul lavoro minorile: i genitori e i tutori sono i migliori giudici degli interessi e del benessere del bambino, più che qualsiasi combinazione di burocrati di Stato;
3. Smantellare la Sicurezza Sociale, lasciando che la protezione e la sicurezza della vecchiaia vengano fornite, di nuovo, dagli individui e dalle loro famiglie.
Queste azioni restaurerebbero i benefici economici dei bambini, ponendo termine alla contraddizione che giace al centro dell’incompleto welfare state. La maggior parte dei commentatori risponderebbe: “è impossibile! Tali azioni sono inconcepibili nella società moderna industriale”. Data la realtà e la complessità del mondo moderno, direbbero, il caos regnerebbe sovrano se attuassimo tale programma reazionario.
Risponderei consigliando di guardare ai gruppi sparsi in America, i quali, per casualità storica o miracolo politico, ancora abitano una delle “zone di libertà” che sopravvive al regime.
Un esempio interessante e inaspettato è fornito dagli Amish, che hanno respinto i tentativi dello Stato di insinuarsi nelle loro speciali pratiche educative (precisamente, l’istruzione esclusiva a cura di insegnanti Amish e solo fino alla terza media), che fanno uso di lavoro infantile ed evitano la Sicurezza Sociale (così come il welfare di Stato). Non solo gli Amish sono riusciti a sopravvivere nell’ambiente industriale; essi prosperano. Le loro famiglie contano 3 volte il numero dei membri della famiglia americana media. Di fronte alla competizione leale, le loro fattorie profittano “nei tempi buoni e in quelli cattivi”.
Il loro tasso di risparmio è straordinariamente alto. Le pratiche contadine, dal punto di vista della tutela dell’ambiente, sono esemplari, segnate da una rigorosa amministrazione del suolo, evitando fertilizzanti chimici e artificiali. Durante un periodo di grande calo dei contadini americani, le fattorie Amish si sono allargate, dall’originale base nel sud est della Pennsylvania all’Ohio, Indiana, Iowa, Tennessee, Wisconsin e Minnesota.
È vero: pochi americani sceglierebbero di vivere come gli Amish, se potessero essere liberi di farlo. Di nuovo, nessuno può sapere l’aspetto che l’America assumerà, se i cittadini saranno liberati dalla dittatura burocratica sulle loro famiglie. Dittatura che è iniziata, qui, oltre un secolo fa, con la scuola pubblica obbligatoria.
Non ho dubbi, personalmente: in una società libera, le famiglie sarebbero più forti, le nascite copiose e gli uomini e le donne più felici. Per me, è abbastanza.


Articolo di Allan Carlson su Mises.org
Traduzione di Luigi Pirri


lunedì 17 giugno 2013

L'uguaglianza in Monaldo Leopardi

Oggi si pretende di costruire il mondo per una eternità e si soffoca ogni residuo e ogni speranza del bene presente sotto il progetto mostruoso del perfezionamento universale”.
Monaldo Leopardi

Nelle mie scandalose letture reazionarie, alla ricerca del politicamente scorretto, sono inciampato, nuovamente, nel “Catechismo rivoluzionario per uso delle scuole inferiori” di Monaldo Leopardi. Padre del ben più famoso e tristemente (in tutti i sensi…) noto Giacomo, fu filosofo e politico “reazionario” (all’interno di questa categoria, solitamente, vengono inseriti tutti coloro che non leggono “La Repubblica"). Trovo questo piccolo saggio sull’uguaglianza illuminante (la metodologia dialogica di confutazione, tra l’altro, ricorda alcuni scritti di Bastiat). Perciò ho deciso di trascriverlo e di proporlo. Se vi piace, diffondete. Grazie.



L’uguaglianza [1]

Discepolo.: è vero che tutti gli uomini sono uguali, come ci assicurano i filosofi liberali?
Maestro.: Prima di rispondervi, voglio farvi io stesso alcune interrogazioni. È vero che tutti gli uomini sono d’una altezza medesima?
D.: Signor no, perché altri sono alti, altri mezzani, altri bassi e questa è la disposizione della natura.
M.: è vero che tutti gli uomini hanno una medesima sanità ed una medesima forza?
D.: Signor no, perché alcuni sono sani, altri infermi, alcuni sono deboli ed altri gagliardi e questo pure è un altro ordinamento della natura.
M.: è vero che tutti gli uomini sieno di una medesima capacità, talento e ingegno?
D.: Signor no, perché alcuni sono ingegnosi, altri dotti, alcuni sono stupidi, altri sono ignoranti e questo pure è un ordinamento della natura.
M.: è vero che tutti gli uomini sieno ugualmente saggi, virtuosi e benemeriti?
D.: Signor no, perché alcuni sono saggi, altri scioperati, altri virtuosi, altri malvagi, alcuni meritano il rispetto e la lode, altri meritano la galera e la forca e questo pure è secondo l’ordine della natura.
M.: Dunque l’uguaglianza è anch’essa una frottola spacciata dalla filosofia moderna e gli uomini non eguali bensì diseguali per ordine e disposizione della natura.
D.: I filosofi non hanno mai detto che gli uomini sieno uguali di statura, di forza, di sanità e di ingegno: e quella che si vuole dalla filosofia è un’uguaglianza di altra sorta.
M.: Se gli uomini sono disuguali in tutto ciò che riguarda il corpo e lo spirito e questo è per disposizione della natura, sarà difficile renderli uguali sotto altri rapporti senza contrastare con gli ordini della natura. Nulladimeno dite un poco, in che cosa potrebbero essere uguali gli uomini, per contentare la filosofia?
D.: Potrebbero essere uguali nelle proprietà e nelle sostanze, sicché al mondo non ci fossero né ricchi né poveri e sopra la terra ognuno avesse la sua giusta porzione di beni.
M.: Signor no, che questo non può essere, e dove volesse tentarsi si andrebbe contro la disposizione della natura. Imperciocché supposto ancora che per un momento si potesse fare uno scomparto uguale di beni assegnandone a ciascheduno la sua parte, ben presto la porzione dell’uomo accorto si vedrebbe conservata e migliorata e quella dello spensierato si vedrebbe decaduta e dilapidata; l’uomo robusto e sano guadagnerebbe con le sue fatiche e accrescerebbe le proprie sostanze e l’uomo infermo e debole dovrebbe vendere le sue per non morire di fame; il figliuolo unigenito erediterebbe tutta la sostanza del padre, e il padre di dieci figliuoli dovrebbe dividere la sostanza propria in dieci parti: così in capo a pochi giorni l’uguaglianza dello scomparto sarebbe guastata e si tornerebbe alla primiera disuguaglianza. Volendosi dunque conservare l’uguaglianza, bisognerebbe ogni sera tornare da capo allo scomparto, rubare il suo a chi ha per darlo a chi non ha,  favorire i dissipatori e gli oziosi discoraggiando gli operosi e frugali e rovesciare da capo a fondo tutte le ragioni della giustizia e tutti gli ordini della società. Non potendosi far questo, è d’uopo lasciare al mondo la disuguaglianza dei beni: e poiché la disuguaglianza dei beni procede dalla disuguaglianza delle forze e degli ingegni la quale è ordinata dalla natura, è d’uopo confessare che anche la disuguaglianza dei beni procede dal comando e dall'ordinamento della natura.
D.: Dite bene, e se vogliamo confessare la verità, pare che la disuguaglianza dei beni si accomodi a meraviglia ancora con la filosofia, giacché i filosofi liberali non si contentano della parte loro e fanno quanto possono per pigliarsi ancora quella degli altri. Sarà dunque che gli uomini debbano essere uguali nel grado e nella condizione?
M.: Signor no, che neppur questo è vero e la disuguaglianza delle condizioni e dei gradi è anch'essa secondo l’ordine della natura. Imperciocché primieramente, se nell’ordine sociale è necessario che vi sieno principi e magistrati per comandare e ministri superiori e inferiori per aiutarli nella loro gestione e per eseguire i loro comandi, questi magistrati e questi ministri costituiranno necessariamente gradi e condizioni diverse nelle società e non potrà farsi che la condizione del giudice sia come quella dello sbirro e la condizione del vescovo sia uguale a quella del campanaro. Secondariamente, se è per ordine della natura che vi sia fra gli uomini la disuguaglianza delle ricchezze e quindi la disuguaglianza dello splendore e del fasto, dell’educazione e della coltura, è naturale che debba esservi ancora la disuguaglianza della condizione e dei gradi, e non potrà farsi che la condizione di un gran signore sia come quella del fabbro, e la condizione di un avvocato e di un medico sia come quella di un beccamorti. Per ultimo, se è per dettato della natura che vi siano principi e magistrati, ricchi e pezzenti, ignoranti e dottori, sarà ancora naturale che la stima, il rispetto e gli omaggi del popolo distinguano una classe dall'altra; e non potrà farsi che il comune degli uomini ravvisi in un medesimo grado e in una condizione medesima il sapiente che lo ammaestra dalla cattedra e il montanaro che vende cald’arroste, il grande che passeggia in carrozza e il facchino che spazza la strada. E poiché la disuguaglianza dei gradi e delle condizioni procede da quelle disuguaglianze originali che vennero stabilite fra gli uomini dalla natura, è d’uopo riconoscere che anche la disuguaglianza nella condizione e nei gradi è dettata e comandata dalla natura.
D.: Dite bene, e bisogna accordare che la disuguaglianza delle condizioni e dei gradi è secondo l’ordine della natura. Almeno però gli uomini dovranno essere uguali in faccia alla legge?
M.: Questa è una proposizione confusa della quale sogliono servirsi i filosofi liberali e prima d’approvarla è d’uopo dichiararla bene, acciocché non se ne tirino conseguenze false e spropositate. La legge, per essere utile e giusta, deve essere adattata alle circostanze, e siccome sono varie e disuguali le circostanze e le condizioni degli uomini, così la legge non potrebbe essere né utile né giusta se non fosse proporzionata alle disuguaglianze degli uomini. Quella legge la quale senza riguardo alla ricchezza e alla povertà, alla debolezza e alla gagliardìa imponesse a tutti gli uomini uguaglianza di lavoro e di tributo, sarebbe una legge ingiusta, perché il dovizioso e il mendico, l’infermo e il robusto non possono considerarsi uguali in faccia alla legge. Così quella legge la quale punisse ugualmente il gettito di un pugno di fango contro un facchino e il gettito di un pugno di fango contro un gran signore, sarebbe ingiusta, perché il facchino da quel pugno riceve un oltraggio leggiero, laddove il grande ne riceve un’onta gravissima; e le convenienze di un facchino e di un gran signore non possono considerarsi uguali in faccia alla legge. Qualora si considerassero singolarmente tutti gli ordini e i rapporti sociali, si troverebbero in essi moltissime disuguaglianze consimili raccomandate dalla ragione e dalla natura: perloché se i filosofi moderni, dicendo che tutti gli uomini devono essere uguali in faccia alla legge, intendono sostenere che la legge deve essere cieca come una talpa e dura come un pilastro, senza adattarsi e proporzionarsi alle circostanze e alle disuguaglianze degli uomini; l’assertiva dei filosofi è una menzogna e non è vero che gli uomini sieno uguali in faccia alla legge. Se poi si intende che a tutti gli uomini si debba secondo la legge amministrare ugualmente e imparzialmente la giustizia, questo è verissimo e non lo contrasta nessuno.
D.: Dunque almeno tutti gli uomini dovranno essere uguali in faccia alla giustizia?
M.: Sì, come vi ho detto, questo è verissimo: ma tale uguaglianza si gode da tutti gli uomini in tutto il mondo civilizzato e non c'era bisogno che si sfiatassero a predicarla i filosofi liberali. Presso tutte le nazioni civilizzate la proprietà del povero è sacra come quella del ricco, la sicurezza del debole è garantita come quella del forte e la vita dell’umile è difesa come quella del grande; e se talvolta si vedono parzialità odiose ed ingiuste, queste sono il peccato dell’uomo e non il difetto delle istituzioni e delle leggi.
D.: Mi pare che diciate bene e che, per disposizione della natura, gli uomini debbono essere disuguali in tutto, godendo solamente uguaglianza in faccia alla giustizia, la quale uguaglianza, poco più poco meno, si trova nell'ordinamento di tutti gli stati. Ma se con un poco di raziocinio si disconosce tanto facilmente che l’uguaglianza è un delirio, come mai i filosofi liberali si ostinano a predicare e inculcare l’uguaglianza generale degli uomini?
M.: I filosofi liberali, almeno quelli di oggidì, conoscono benissimo che l’uguaglianza è una chimera, ma se ne servono per adulare e suscitare le passioni del popolo. Il volgo conosce per una parte, che tutti gli uomini devono essere uguali in faccia alla giustizia, e poiché qualche volta soggiace o crede di soggiacere all'aggravio della prepotenza e della parzialità, mette facilmente a carico delle istituzioni e delle leggi il difetto e la prevaricazione dei magistrati: e, d’altra parte, trovandosi nella bassezza e nella povertà, non si cura di considerare che l’umiltà di certe classi è necessaria alla composizione naturale e sociale del mondo, come le pietre seppellite nella profondità delle fondamenta sono necessarie alla elevazione dell’edifizio e si abbandona facilmente ad invidiare le classi sublimi. I filosofi, dunque, predicando l’uguaglianza e lusingando gli affetti del volgo, lo spingono all'odio contro i grandi e contro i governi, e lo riducono a mettere sottosopra il mondo, quantunque sappiano che dopo la rivoluzione il volgo resterà più povero e più disuguale di prima. Ed ecco la buona fede dei filosofi liberali.

[1] M. Leopardi, “Catechismo filosofico per uso delle scuole inferiori”, pp. 13 - 17, Stamperia Reale, Napoli, 1857.

Luigi

martedì 4 giugno 2013

Una difesa cattolica della proprietà privata: Padre Tyn e l'etica economica

Le recenti parole di Papa Francesco hanno sottolineato, ancora una volta, il rapporto problematico tra una certa visione “egoistico – razionale” del mercato e la Chiesa Cattolica o, almeno, una parte di essa, nonché le strumentalizzazioni, da parte di certa stampa ideologica,  della dottrina cattolica e della storia stessa del Cattolicesimo.
Se è vero (come è vero) che l’assolutizzazione della ragione individuale, in quel processo di deificazione edonistica, risultato dell’ideologia rivoluzionaria – illuminista, è inaccettabile per il Cattolicesimo, non meno importante è la strenua difesa della proprietà privata da parte del Magistero stesso.
Un interprete eccezionale, nonché autentico martire comunista, della prospettiva “proprietaristica” cattolica, fondata nel tomismo coerente, fu Padre Tomas Tyn, O.P. (Ordine dei Predicatori: è attraverso questo acronimo che vengono identificati gli appartenenti all’ordine domenicano).

Qualche annotazione biografica è necessaria:
Tomas nacque a Brno, in Cecoslovacchia, oggi Repubblica Ceca, il 3 maggio 1950 da genitori entrambi medici, primo di tre figli: la sorella Helena e il fratello Pavel. Fu battezzato nello stesso giorno, nella cappella della clinica ostetrica regionale di Brno. Il padrino, dott.Josef Konupcik fu suo nonno, dentista, attivo cattolico, persona colta, che nutriva grande venerazione per i santi Agostino e Tommaso d’Aquino.
Dall’ambiente familiare il piccolo Tomas assorbì quei princìpi cristiani, dei quali il regime comunista di allora ostacolava la pubblica professione. 
[…]
Da ragazzo Tomas si appassionò per gli ideali cavallereschi medioevali. Questo spirito cavalleresco riemergerà in qualche modo, trasfigurato da una robusta fede, nel Tomas ormai Predicatore domenicano, in occasione delle sue frequenti predicazioni, spesso caratterizzate da un’energica ma sempre leale combattività per il bene delle anime e della Chiesa.
[…]
Disgustato per le deviazioni morali e dottrinali presenti in quegli anni in Germania a causa di un’interpretazione modernistica degli insegnamenti del Concilio e desideroso di vivere la sua vita domenicana in piena comunione con la Chiesa, Tomas venne a sapere che i Domenicani bolognesi, sotto la saggia guida dell’allora priore provinciale Enrico Rossetti, di santa memoria, erano intenzionati a promuovere il vero rinnovamento conciliare in una posizione equilibrata che evitasse sia le resistenze di un falso tradizionalismo ribelle al Concilio, sia le deviazioni dottrinali di uno scriteriato neomodernismo autoproclamantesi continuatore del Concilio contro l’interpretazione che di esso stava dando il magistero della Chiesa.
[…]
Fra Tomas fu ordinato sacerdote il 29 giugno 1975 a Roma da Papa Paolo VI. In quel giorno, come si seppe dopo la sua morte, Padre Tomas offrì segretamente la sua vita per la libertà della Chiesa nella sua patria oppressa da un duro regime comunista. 
[…]
Immediatamente dopo la sua santa morte devoti ed amici, in Italia ed in Repubblica Ceca, riconoscenti per i benefici ricevuti grazie al suo ministero, si sono fatti promotori della sua causa di beatificazione. La loro perseveranza è stata premiata allorché l’Arcivescovo di Bologna, il card.Carlo Caffarra, dietro istanza dei Domenicani della Repubblica Ceca, il 25 febbraio del 2006, nella basilica domenicana di S.Domenico, dove Padre Tomas svolse il suo ministero sacerdotale, inaugurò solennemente l’inizio del processo di beatificazione”.
Questa, in sintesi, la storia di Padre Tomas Tyn.
Per quanto mi riguarda, non ho dubbi nel credere che egli abbia offerto davvero la sua vita per la liberazione del suo paese natale, la Cecoslovacchia, da quel regime statalista, totalitario, antiumano e terribile che fu il “socialismo reale”.
Feroce oppositore della Rivoluzione Francese e dei suoi corollari (fu, tra gli altri, folgorato dalla lettura di “Rivoluzione e Controrivoluzione” del discusso leader cattolico Plinio Correia de Oliveira), Padre Tomas scrisse centinaia di pagine, di altissimo valore scientifico (manifestò il suo talento precocemente nella speculazione teoretica e alle lingue, anche orientali o antiche come il greco, l’ebraico e il latino)  nei campi più svariati (naturalmente teologia, metafisica e filosofia ma anche economia, diritto, epistemologia, storia) e tenne numerosissime conferenze negli stessi settori.
E proprio al contenuto di una di queste (“Etica Economica”, parte di una serie di cinque incontri tenutisi a Bologna sulla Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica), vorrei fare riferimento in questo articolo: si tratta di un incontro avvenuto a Bologna, nella seconda metà degli anni '80, terzo di una serie di cinque, incentrato sulla Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica e promosso dall’Associazione per lo Studio e la Diffusione della Verità Cattolica sull’uomo e sulla società.
Di seguito, la trascrizione di alcuni dei passi più significativi della conferenza, che ho provveduto a trascrivere interamente, seguiti da un breve commento, in cui cercheremo di tirare le somme e aggiungere un paio di considerazioni.
“L’economia, come sapete, riguarda l’uso e la dispensazione: esattamente, 'oikonomia' vuol dire 'disposizione della casa' e quindi amministrazione dei beni esterni. È del tutto chiaro che il rapporto dell’uomo singolo coi beni che lo circondano, coi beni che egli possiede o non possiede, è di indole sia personale, sia, nel contempo, essenzialmente sociale: riguarda da vicino l’etica sociale, in particolare quella economica”.
[…]
 La Santa Romana Chiesa ci tiene a rendere noto che, in questo campo, essa non promulga una legislazione positiva, che deriva dalla stessa mens ecclesiae del Magistero della Chiesa: il Magistero, qui, non fa altro che proporre ai fedeli quella che è la lex naturalis dei, con le sue finalità insite nell’essenza dell’uomo, che non conosce mutamenti; finché l’uomo sarà tale, quelle leggi avranno validità; e, anche se l’uomo scomparisse, nella mente del Creatore stesso esso avrebbe sempre le stesse qualità.
[…]
Trattare dell’etica economica significa, innanzitutto, definire essenza del rapporto del singolo individuo umano, inserito globalmente nella società, rispetto ai beni esterni, rispetto a tutte quelle creature in mezzo alle quali Iddio lo ha collocato. Qual è questo rapporto? La Chiesa adopera una parola semplice, chiara: il diritto naturale, imprescindibile, intoccabile, immutabile alla proprietà privata: tutta l’etica economica poggia su questo fondamentale diritto dell’uomo; il diritto a possedere (ius dominii privati) le cose, come signore e padrone delle cose medesime.
Questo diritto, tanto insediato dai sistemi e dalle ideologie collettivistiche e social comunistiche di oggi, non è un diritto promulgato da qualche autorità umana ma è creato da Dio stesso, si appoggia alla struttura personale dell’uomo: il Pontefice regnante, giustamente, sottolinea il carattere personale dell’uomo; e, proprio in virtù di questa caratteristica, l’uomo possiede un nativo, quindi originario, diritto non mediato, derivante dalla sua natura come creata da Dio, a possedere personalmente, privatamente, le cose. Possiamo illustrare tutto ciò alla luce dell’antropologia teologica: l’uomo, creato ad imaginem et similitudinem dei, a immagine e somiglianza del Suo Creatore.
[…]
Proprio la dignità della persona umana fa sì che l’uomo, anziché essere posseduto dalle cose, anziché dipendere da esse, debba egli stesso possedere le cose, checché ne dicano i nostri amici radicali e verdi spinti, secondo i quali l’uomo non sarebbe altro che un fattore di disturbo nella pulita natura. Non è questo il senso cattolico; allo stesso tempo, noi non siamo padroni della natura nel senso di essenza ontologica; sotto questo aspetto l’unico proprietario è Dio.
Per quanto concerne adoperare le cose, l’uomo è al di sopra di queste, deve esserne padrone, non schiavo. Vedete l’importanza personale, metafisica e psicologica della proprietà privata. Importanza, vedremo, anche sociale, non solo ontologica: solo la proprietà privata garantisce il rispetto dell’uomo nella convivenza sociale. Solo attraverso la proprietà l’uomo riesce a difendere sé stesso dalle invadenze della Grande Società, cioè la società politica, sempre tentata dal totalitarismo, dal collettivismo, dall’invadere la sfera personale dell’uomo. L’uomo, tramite il possesso dei beni, riesce ad affermare la Sua Verità di essere sì sociale ma anche di persona, inserito non come uno schiavo ma come una persona libera, non proprietà dello stato, ma che va rispettato e, anzi, oserei dire, che va servito dallo stato. L’uomo come bonum honestum.
Questo andava premesso per farvi vedere l’importanza del discorso della proprietà privata. San Tommaso d’Aquino, nella secunda secundae quaestio 66 articolo 2, spiega questo principio della proprietà privata: 'Bisogna, per quanto concerne il rapporto dell’uomo verso i beni esterni, distinguere un duplice atteggiamento dell’uomo: anzitutto, il diritto ad acquisire e a dispensare (ius acquirenti et dispensandi)'; sotto questo aspetto, dice San Tommaso, l’uomo ha il diritto naturale ad essere proprietario delle cose: l’uomo, cioè, è padrone delle cose in quanto ha il diritto di acquisire beni terreni e a dispensarli; l’altro atteggiamento verso i beni della terra è quello dell’uso: l’uomo non solo acquisisce e non solo dispensa i beni terreni ma ne fa un uso; sotto questo aspetto, sottolinea San Tommaso, bisogna tenere sempre presente la destinazione comune, la destinazione sociale dei beni suddetti (notate bene: distinzione raffinata, non facile a prima vista). Bisogna distinguere l’aspetto dell’acquisto e della dispensazione: l’uomo, singolo, privato, in modo insostituibile, deve prendere iniziativa, non è lo Stato che deve spingerlo, non è lo Stato che deve sostituirsi ad esso, ma è l’uomo, lui stesso, che acquisisce beni esterni. Vedete come il lavoro, l’impresa, non in senso marxistico, riduttivo, come se il lavoro fosse solo quello manuale, ma il lavoro come umana attività, come impresa (anzi, l’imprenditore, più di ogni altro, ci mette del suo per accumulare i beni della terra e per organizzarli). Dopo averli accumulati, l’uomo deve, da padrone, non da schiavo dello Stato, dispensarli.
[…]
Vediamo quali sono gli argomenti a favore della proprietà privata. Per San Tommaso lo ius acquirendi et dispensandi poggia su tre fondamenta:
-          Ogni uomo è più sollecito nel procurarsi le cose sue che non quelle comuni a tutti o a molti, sicché, se il possesso fosse collettivo o gestito collettivamente dallo Stato, ciascuno, dice San Tommaso con grande realismo, essendo facile profeta in tale materia, cercherebbe di sottrarsi alla fatica e lascerebbe ad altri l’impegno. Basta vedere in Russia cosa succede: c’è il colcos, ovvero la cooperativa agricola, dove tutti i beni sono in comune, e poi c’è un piccolo appezzamento di terra, dove il piccolo contadino può coltivare qualcosa da vendere al mercato. Ebbene, le terre del colcos sono terre assolutamente trascurate, invece quel fazzoletto di terra è curato con grande sollecitudine e straordinario amore. Perché? Per un motivo semplice. 'Ma il marxismo sottolinea indole altruistica dell’uomo!' direte voi. Tutt’altro miei cari, tutt’altro!. Il marxismo non ha capito una cosa: che l’individuo precede lo Stato. Nessuno vorrebbe pensare ad uno stato super capitalista, uno stato come persona. Ben venga quel sano “egoismo”, che tale non è, per cui la gente avverte che lo stato non ha diritto a possedere prima dell’uomo: prima viene l’uomo, poi viene lo Stato; solo tramite l’uomo quindi. Lo Stato deve sì amministrare il reddito nazionale, per così dire, da “redistribuire”. Ma chi gli dà quei beni? I singoli cittadini. Non è il singolo cittadino che riceve elemosina dallo Stato; è singolo cittadino che elargisce quanto deve a favore del bene comune, la quale elargizione torna a suo vantaggio;

-          Il secondo argomento: gli affari umani vengono sempre meglio curati se ciascuno ha un compito preciso riguardo qualcosa che gli spetta in proprio. Non è solo questione del possedere, ma anche dell’intraprendere; se tutti devono acquisire disordinatamente, non si acquisisce, c’è solo una confusione totale, come accade nelle economie totalitariste, totalmente fallimentari e sterili, sistemi esempio di miseria spirituale e miseria materiale. Orbene, San Tommaso sottolinea: nella proprietà privata, diritto personale, privato, ad accumulare beni, è il singolo che deve occuparsi del suo dovere di acquisire, non delegare ad altri. È una delle utopie del marxismo, il quale è dotato di un’anima ibrida: da un lato, l’anima crudemente e crudelmente realistica, dall’altro l’allettante anima utopistica. La realtà marxista è la dittatura del proletariato; l’utopia marxistica è la guarigione dell’uomo dalle sue alienazioni. Come vuole ottenere questa guarigione il marxismo? Espropriando il singolo, facendo sì che ognuno lavori secondo il comando della 'società perfetta', cosa che naturalmente non arriverà mai, fortunatamente aggiungo io (già la dittatura del proletariato è poco piacevole, figuriamoci lo step ulteriore paradisiaco che ci promettono…). Quindi, nell’escatologia marxista, ognuno lavorerebbe quanto gli piace, ricevendo quello che desidera. San Tommaso dice che non è possibile: la divisione del lavoro corrisponde alla ragionevolezza e alla dignità dell’uomo; non è conseguenza del peccato originale, è insita nella natura stessa dell’uomo: appena l’uomo inizia a vivere in una società ordinata, ciascuno acquisisce per sé: basta vedere i regimi totalitaristi e collettivisti per rendersi conto del loro fallimento ('piani quinquennali', tutto programmato, tutto pianificato, con grande confusione però). Non è possibile che lo Stato divida il lavoro, non deve essere opera di un pianificatore incaricato dal partito o da un organo di stato; è il singolo cittadino che si incarica di quel determinato lavoro e, attraverso esso,  acquisisce beni coi quali contribuisce al bene comune. Ecco l’etica sociale ecclesiastica;

-          in ultima analisi, la proprietà privata contribuisce anche alla pace sociale, poiché ciascuno è contento del suo (e non può esserlo quando non possiede assolutamente nulla). La Santa Chiesa di Dio, a differenza della liberale e massonica Costituzione degli Stati Uniti, dice, non solo, che l’uomo ha il diritto a essere felice ma il dovere di essere felice! In attesa di una vita eterna, per vivere una vita serena, è necessario che la società umana miri alla sua pace intrinseca, immanente. Questa pace non si può raggiungere se i cittadini non sono contenti ciascuno del proprio, possedendo privatamente. Le invidie sociali, nelle società disordinate, sia nella società liberale (nel senso di capitalismo e liberalismo 'selvaggio') sia la società marxista social comunista, sono fondate sulla scontentezza, sull’invidia sociale. La differenza potrebbe essere descritta così: nella società capitalista ci sono pochi contenti e molti scontenti; nella società comunista c’è una perfetta uguaglianza: tutti sono scontenti.
[…]
Leone XIII fa eco a San Tommaso nella prima Enciclica Sociale “Rerum Novarum”; afferma che un principio inscindibile della dottrina della Chiesa è questo: 'possidere res privatim ut suas, ius est omini a natura datum' (possedere le cose privatamente è un diritto che la natura stessa ha dato all’uomo). Nel diritto alla proprietà privata non deve intromettersi la società, perché il singolo, l’uomo, precede la collettività, precede la società politica. Il diritto alla proprietà privata è intangibile, solo il privato può rinunciare a esso.
Giovanni Paolo II, fa eco a Leone XIII nella citata enciclica Laborem Exercens. Pio XI ribadisce ancora: La chiesa cattolica considera che 'a natura seu a Creatore ipso, ius dominii privati hominibus esse tributum' (è stato dato all’uomo, cioè dal Creatore della natura, il diritto al dominio privato dei beni materiali). Solo che, da un lato, l’uomo deve destinare questi beni a sé e alla sua famiglia, attraverso un uso personale e familiare e poi destinarli all’uso sociale: l’uomo non deve dimenticare che il Creatore ha destinato tali beni a tutta la comunità umana; prima viene il singolo e la sua famiglia, soddisfatti questi c’è la comunità. L’accumulo del capitale sia destinato al bene comune di tutti.
Badate bene, cari fratelli: il principio del capitalismo moderato è principio giusto! È giusto che il cittadino possieda anche privatamente i mezzi di produzione. Quando sentite dire: <la Chiesa condanna ugualmente il socialismo e il capitalismo> non è vero, è una grande menzogna. Intanto bisogna già distinguere tra capitalismo selvaggio e moderato. Se per 'capitalismo', marxianamente, si intende il diritto alla proprietà privata dei mezzi di produzione, tale capitalismo, per l’etica della Chiesa, è lecito, si tratta di un principio giusto. Lo stato deve provvedere alla promozione del benessere temporale di tutti i cittadini, amministrare i beni economici in modo tale da accrescere il benessere; quindi lo stato non accresca la miseria, come prevede il marxismo; bisogna produrre prosperità per tutte le generazioni, accrescerla, affinché si possa convenientemente esercitare anche la virtù, ossia la concezione cristiana della prosperità economica, condizione necessaria e imprescindibile quale mezzo verso un fine.
Innocenzo III, contro tutti i vaneggiamenti gnostici contrari alla proprietà privata, impone ai valdesi una professione di fede, nella quale essi devono ritrattare i loro errori. È interessante lo spirito antignostico del Magistero Pontificio: il movimento valdese, sin dalle sue origini, fu quasi manicheo, essendo ostile ad ogni bene creato (vi era il divieto di mangiare carne, di usare della proprietà privata, del matrimonio, della autorità nello stato e quindi di punire i delinquenti con la pena capitale, etc.; i valdesi negavano tutto questo). Cosa dice Innocenzo III?
'Chi rimane nella vita secolare e possiede dei beni suoi personali, dandone tuttavia elemosina, osservando i precetti del Signore, può salvarsi'.
Il cristiano che vive nel mondo e che possiede privatamente dei beni, purché faccia delle elemosine, può salvarsi, mentre i valdesi dicevano esattamente il contrario, come i marxisti e come i nostri cristiani socialisti attualmente. Voi sapete che c’è questa tendenza a sovvertire la storia del Magistero ecclesiastico, c’è una rilettura marxista del Magistero, anche da parte dei sedicenti cristiani, i quali affermano: ‘Sì, la Chiesa ha difeso la proprietà privata ma solo dei potenti e dei possidenti!’. Ci sono tre documenti, uno di Innocenzo III, uno di Paolo III e uno di Gregorio XIII, che condannano, anche con pene ecclesiastiche (scomunica latae sententiae) chiunque osasse espropriare gli ebrei, gli indios e i neri. Nessun cristiano poteva espropriare un ebreo, per quanto essi non fossero soggetti al Romano Pontefice. Lo stesso per gli indios: a nessuno era consentito togliere loro i beni che possedevano; ci sono documenti che parlano chiaro e, per la Chiesa, il principio della proprietà privata è principio sacro ed intangibile.
Secondo San Tommaso, bisogna considerare il male a seconda del bene che è stato offeso: se è vero, come è vero, secondo i principi dell’etica sociale, che non la società è padrona ma l’uomo è il fine della società, allora la corruzione dell’uomo nella sua dignità personale è colpa ben più grave della distruzione della società: il liberalismo distrugge la società mentre il social comunismo distrugge l’uomo stesso".
Non c’è bisogno di aggiungere altro alle mirabili parole di Padre Tomas, se non un paio di puntualizzazioni circa i seguenti concetti:
-          la visione latamente “welfaristica” dello Stato, quale ente deputato a promuovere il “benessere sociale”;
-          il rigetto in toto del “capitalismo selvaggio”.
Circa il primo punto: ciò che risulta evidente, dalla lettura sistematica e coerente di questi versi, è, non tanto, la promozione della necessità dell’istituzione “Stato”, modernamente intesa (il che è l’unico modo di intenderla, a dire il vero), impegnato nella promozione del bene comune; il richiamo è all’istituzionalizzazione della solidarietà, nella forma di una comunità politica organizzata ed, eventualmente, indipendente dal potere politico, la quale, spontaneamente, riconoscendo il valore supremo della carità cristiana, si impegna nella cura e nell'assistenza dei più bisognosi o degli inabili al lavoro; un insieme di tutele che riecheggia il sistema di welfare presente nella società industriale ottocentesca degli Usa e, più in generale, nelle forme di solidarietà volontaria scaturenti dalla cooperazione e dal reciproco aiuto.
Ancora: lo Stato non è una forma di organizzazione politica come un’altra, perpetuata dall’inizio della storia umana e destinata a scomparire solo con la fine dei tempi. È un errore filologico diffuso ritenere che tutte le istituzioni politiche pre moderne siano, in qualche modo, riconducibili alla forma statuale (la polis, l’Impero Romano, le monarchie gernamiche, le signorie laiche edecclesiali medievali, etc.); si tratta di applicare un concetto, con la sua corrispondente elaborazione teorica e proprietà sostanziali ("sovranità", "unità", etc.), a realtà che quella istituzione (lo “Stato”) non conoscevano.
Infatti:
"L'Etat est une création historique. Il est apparu à un moment donné de l'histoire, par conséquent il peut également disparaitre à un autre moment. Son instauration a repondu à dés necessités de l'évolution des sociétés occidentales, bouleversées par la rupture qu'ont introduit la Renaissance et la Réforme". [1]
Allo stesso modo, Paolo Grossi, rinomato storico del diritto e giudice della Corte Costituzionale, sottolinea:
“Orbene, noi potremmo continuare tranquillamente a  usare il termine/nozione ‘Stato’ nel generico significato di entità politica munita  di eettività potestativa in un determinato territorio, ma ci inoltreremmo in tal modo su un sentiero malfido, giacché quel termine/nozione si è caricato durante l’itinerario della modernità – dal secolo XIV in poi, e sempre più accentuatamente – di ulteriori e più pesanti contenuti, trasfiguràndosi da supremo potere eettivo in una precisa psicologia del potere, intensa e violenta, con la vocazione totalizzante a controllare tutto quanto, a livello sociale, si svolge nella sua proiezione territoriale; con l’ulteriore risultato, che a questa psicologia omnicomprensiva consegue la realizzazione della sottostante perfetta unità politica e giuridica, perché il grande burattinaio, che pretende di avere in mano tutti i fili e tenderli e manovrarli a suo piacimento, non tollera nel suo raggio di azione poteri alternativi o, comunque, zone incontrollate” [2].
L’analisi della questione richiederebbe molto più che qualche citazione, ma si tratta di argomento complesso e vastissimo.
Alla luce di ciò e richiamando le parole di Padre Tyn (“L’individuo precede lo Stato!”) risulta difficile comporre armonicamente la diatriba proprietà privata – potere pubblico moderno; la tendenza dello Stato a ingigantirsi e a coprire qualsiasi zona della società, nella pretesa di “controllare” le nostre esistenze, sembra presente anche nelle forme statuali che, almeno inizialmente, si presentano più garantiste e meno minacciose per l’individuo (ad esempio, gli Usa).
In ultimo, due parole circa il “capitalismo selvaggio”.
Sicuramente, almeno dal mio punto di vista, i prelati e gli uomini di Chiesa fanno bene a richiamare l’attenzione sulla deriva assolutista del “liberalismo”: ma trattasi, appunto, di una particolare forma di “liberalismo”, cioè quello rivoluzionario - illuminista, che pretende di assolutizzare l’uomo e di conferire potenza creatrice alla sua ragione: la Chiesa non potrebbe certo promuovere tale eresìa.
Ma c’è anche un “liberalismo” (rectius: capitalismo) buono e indispensabile alla vita stessa: è quello “moderato”, ma “moderato” nei suoi fini (rectius: mezzi), nel senso che non assolutizza l’uomo, che non pretende di cogliere nella materia (che senso non ha) il significato della vita [il fine ultimo dell’uomo, per la metafisica e per la religione, è quello di aspirare alla Verità (il “sommo bene” per la prima; “Dio Creatore” per la seconda) e questa Verità esiste da sempre e per sempre esisterà; negarla equivarrebbe ad ammetterla. Si tratta del percorso che, per il Cristianesimo, ogni uomo dovrebbe compiere, consapevolmente e volontariamente, per avvicinarsi, con l’aiuto della Grazia e nei limiti delle sue possibilità, ristrette dal peccato originale, alla Ragione Creatrice]; perciò la proprietà privata, come sottolinea Padre Tyn, non ha esclusivamente un carattere “tecnico”, “politico”, “utilitarista”: è il fondamento stesso della dignità umana, perché vietare la proprietà (e il possesso) delle cose equivale a permettere la schiavitù degli uomini. È necessario, nel nostro piccolo, opporre allo statalismo teologico (perché, sappiamo, si tratta di teorizzazioni laiche di elaborazioni teologiche) una teologia naturale, intuitiva, tradizionale, cui tutti possano abbeverarsi; forse falliremo lo stesso ma il recupero della religione in chiave antistatalista è cruciale.
Bisogna, nello scetticismo radicale che pervade la nostra società (atteggiamento tipico di tutte le civiltà decadenti) recuperare un sano dogmatismo etico. 
E che anche la Chiesa possa (ri)trovare il coraggio di opporsi allo statalismo.
Luigi Pirri
Note:
[1] Julien Freund, L'ennemi et le tiers dans l'Etat, in Archives de Philosophie du Droit, 21 (1976), pp. 23 - 24.
[2] Paolo Grossi, Il sistema giuridico medievale e la civiltà comunale, archivio e-prints Università degli Studi di Firenze, p.4.

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